CATANZARO Da un lato c’è il boss: nell’elenco delle 56 persone arrestate nell’inchiesta “Olimpo” della Dda di Catanzaro spicca il suo indirizzo di residenza in un villaggio turistico a Ricadi. Dall’altra c’è il mondo politico e istituzionale che apre le porte a investimenti destinati (è sempre questo l’auspicio) a cambiare il futuro della Calabria. Sono due universi distanti che non dovrebbero toccarsi: poi ci si mette un “facilitatore” e bastano un paio di passaggi per metterli virtualmente in contatto. È sufficiente un imprenditore capace di sedersi a due tavoli. Quello a favore di telecamera, con la sede della Regione Calabria come location. E l’altro, il “mondo di sotto” svelato soltanto grazie all’inchiesta della Dda di Catanzaro. Per raccontare questa declinazione criminale della teoria dei gradi di separazione servono due storie. Il boss e l’imprenditore: Diego Mancuso e Vincenzo Octave Calafati.
Il boss ha scelto il “Paradiso” come buen retiro sulla Costa degli Dei. Vista su tramonti mozzafiato, mare cristallino e un villaggio turistico a disposizione da cui tirare i fili dei propri affari. Estorsioni, per lo più. Il lignaggio criminale inquadra Diego Mancuso in una delle cosche più potenti della Calabria. Ramo ‘Mbrogghia della famiglia, legami importanti con il boss di Zungri Peppe Accorinti, Diego Mancuso mantiene «un ruolo di primo piano all’interno dell’organigramma criminale incentrato sul Crimine Luigi Mancuso». È un altro Mancuso, Emanuele, primo pentito nella storia del clan di Limbadi, a raccontare che, «dopo la scarcerazione», Diego Mancuso «si era trasferito al villaggio Heaven di Ricadi di cui era proprietario, da dove continuava a coordinare le attività del sodalizio». Per i magistrati antimafia quella di Diego Mancuso è un’affiliazione antica, «testimoniata sin dagli anni 80», quando il boss era neppure trentenne, «e perdura fino all’attualità». Lo proverebbero le «dinamiche estorsive» a cui avrebbe preso parte. E altri riscontri arriverebbero «dalle immagini cristallizzate dal sistema di videosorveglianza installato presso il villaggio Heaven, dalle emergenze investigative confluite nell’inchiesta denominata “Imponimento” e dalla dinamica che lo ha visto coinvolto con l’imprenditore Vincenzo Calafati» che si sarebbe rivolto proprio a Mancuso «per accreditare gli investimenti in Calabria dell’operatore turistico tedesco Tui». È proprio la mediazione nel rapporto con Calafati, altra figura chiave nell’inchiesta “Olimpo”, uno dei passaggi che raccontano – stando alle ipotesi dell’accusa – i retroscena di un insediamento turistico presentato come una prospettiva di sviluppo e, invece, finito nelle carte dell’inchiesta della Dda per legami scomodi tra imprese e clan.
Un boss non si espone in prima persona. È per questo che Mancuso avrebbe individuato Davide Surace come «intermediario delle consorterie criminali locali» nei rapporti con Calafati, referente di “Destinazione Calabria” e del colosso turistico pronto a sbarcare in Calabria con il suo mega resort da 1.500 posti nel 2018. Il 24 settembre di quell’anno le porte della Regione si aprono alla presentazione di “Tui Magic Life”. Progetto imponente: nella conferenza stampa alla quale partecipa anche l’allora governatore Mario Oliverio si parla di un resort da 1.554 posti, il primo del genere in Italia. Al tavolo c’è ovviamente Francescantonio Stillitani, già coinvolto in “Imponimento” e arrestato in “Olimpo”, che torna nell’istituzione per la quale è stato assessore di centrodestra. E spiega, da operatore del settore, che l’obiettivo è quello di rendere la Calabria «sempre più meta di presenze internazionali». Assieme a politici e imprenditori, quel giorno c’è anche Vincenzo Octave Calafati, «imprenditore nel settore dell’incoming» che, per i magistrati della Dda, avrebbe «favorito l’infiltrazione delle cosche in iniziative e progetti del settore turistico-alberghiero, assicurando che le forniture di merci e servizi fossero appannaggio degli imprenditori espressione del sodalizio e favorendo la consumazione di estorsioni in danno degli operatori turistici, secondo le indicazioni dei soggetti apicali dell’associazione».
Calafati sarebbe – si tratta ovviamente di ipotesi di accusa – una figura di raccordo tra i due mondi. Avrebbe, da un lato, rapporti con la criminalità attraverso gli intermediari individuati dal boss; dall’altro «entrature nella politica e nell’amministrazione regionale» che gli avrebbero permesso di ottenere «con modalità illecite, contributi ed agevolazioni pubbliche». Può sedersi a due tavoli, Calafati. Di quello istituzionale rimangono tracce visibili in servizi e comunicati stampa dell’epoca.
L’altro tavolo – ben più riservato – appare nella ricostruzione investigativa grazie alle intercettazioni finite agli atti dell’operazione “Olimpo”. Un mese prima della conferenza stampa in Regione, la sua «vicinanza» ai clan locali emergerebbe da una conversazione captata «tra l’imprenditore, Davide Surace» e una terza persona non indagata. I tre, secondo i magistrati, «discutono delle criticità insorte a seguito delle modalità di gestione imposte da Luigi Mancuso, meno disposto a riconoscere provvigioni alle compagini affiliate e, perciò, causa di una precarietà degli equilibri consolidatisi nel tempo». È Surace a riassumere la questione: «Lamentele da tutte le parti tutti che non gli arrivano soldi, non gli arriva niente, stanno prendendo tutti i soldi in… hai capito? Se li sta prendendo tutti!… la sotto!… No, no, sta prendendo tutto!». Anzi, «sta cogghjendu tuttu», per restare fedeli all’audio originale. La presentazione ufficiale del progetto si avvicina e gli investigatori continuano ad ascoltare Calafati che, parlando con la propria compagna, le avrebbe riferito «di avere un grande potere e di essere tenuto in grande considerazione dagli esponenti delle consorterie criminali».
In un’altra conversazione, «viene poi trattata la questione dell’”aliquota” da versare a terzi (riferendosi verosimilmente ad esponenti della criminalità organizzata), secondo dinamiche del tutto rodate sul territorio, facendo riferimento anche a voci da inserire in clausole contrattuali». Parlando, invece, con un promotore immobiliare tedesco, il “facilitatore” Calafati farebbe «espresso riferimento all’esigenza di contemperare gli interessi della criminalità organizzata locale». La vicinanza dell’imprenditore di “Destinazione Calabria” alla cosca Mancuso viene peraltro fatta risalire – secondo quanto riportato nell’ordinanza dell’operazione “Olimpo” – a un’altra inchiesta storica sull’infiltrazione dei clan nel turismo. Si tratta di “Costa pulita”, un fascicolo aperto nel 2010. Tredici anni dopo nomi e metodi si ripetono. E le «entrature» del manager consentono di aprire ai suoi progetti le porte della Regione. (p.petrasso@corrierecal.it)
x
x