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Rinascita Scott, Pietro Giamborino: «I collaboratori? Sono prezzolati dello Stato»

I rapporti con Galati “il ragioniere”, la politica, i festeggiamenti quando ha perso le primarie a Vibo e la convocazione in Prefettura

Pubblicato il: 31/01/2023 – 21:27
di Alessia Truzzolillo
Rinascita Scott, Pietro Giamborino: «I collaboratori? Sono prezzolati dello Stato»

LAMEZIA TERME Dice di se stesso di volersi difendere nel processo e non dal processo. Non ama l’espressione collaboratori di giustizia, preferisce chiamarli “prezzolati dello Stato”. Si descrive come un buon cattolico (“I cattolici non si spaventano, in Paradiso non si va in carrozza”), dedito al volontariato, collaboratore culturale del defunto giudice Pietro D’Amico, suo cugino.
 Non pronuncia mai la parola mafia o ‘ndrangheta, fino a quando, nel corso dell’udienza, il pm Antonio De Bernardo chiede “Ma non riesce a dirlo?”. Solo a questo punto Pietro Giamborino, ex consigliere regionale, imputato nel processo Rinascita-Scott con l’accusa di associazione mafiosa, cambia eloquio: “Ma parlavo di questa mafiosità”.
Ha un parlare ossequioso e prolisso che è quasi un comizio, ma allo stesso tempo è sfrontato davanti a chi lo accusa e gli pone le domande. Come quando Antonio De Bernardo gli chiede se conosce qualcuno soprannominato Pinocchio.
“Quello di Collodi non è uno?”, risponde, salvo poi spiegare che era il soprannome di un suo fratello.
O come quando gli viene chiesto il perché di alcune affermazioni nelle quali parla di una imminente operazione con 300 arresti tra medici, avvocati, professionisti (in Rinascita ci sono stati 334 arresti, ndr). Lui risponde che aveva tirato a indovinare, disse 300 per dire tanti arresti e poi bofonchia: “Non si può nemmeno azzeccare un pronostico”.
Secondo l’accusa, Pietro Giamborino, 66 anni, è componente del locale di Piscopio, cosca che prende il nome da un quartiere di Vibo Valentia al quale l’ex esponente politico appartiene. Giamborino avrebbe ottenuto “a proprio vantaggio il voto elettorale procacciatogli da altri associati, impegnandosi in maniera fattiva, continuativa e concreta ad agire per gli interessi e vantaggi dell’organizzazione”. In tre ore di esame da parte del pm parla parecchio, i preamboli e i racconti sono lunghi, i giri immensi.

La carriera, il cugino Galati e i festeggiamenti per la sua sconfitta

Figlio di un minatore morto nel crollo di una galleria, una laurea in giurisprudenza, una lunga carriera politica. Pietro Giamborino – difeso dagli avvocati Enzo Belvedere e Domenico Anania –, si candida per la prima volta nel 1994. Nel 2005 diventa consigliere regionale con la Margherita e nel 2010 entra con il Pd come il primo dei non eletti nella consiliatura Scopelliti (anche se il suo partito non lo aveva sostenuto). Nel 2014 perde le primarie del Pd per le amministrative a Vibo contro Antonio Lo Schiavo. In quella occasione disse a un giornalista, che gli chiedeva una battuta su quella sconfitta, “che tutto si era svolto in un contesto di Gomorra”. “A me la criminalità organizzata non mi ha mai votato. In quella occasione si schierò palesemente contro di me”, dice Giamborino.
Pietro Giamborino racconta che venne convocato il comitato per l’ordine e la sicurezza pubblica e in Prefettura gli venne chiesto il perché, subito dopo la sua sconfitta, vennero sparati dei fuochi d’artificio per festeggiare e perché l’avvocato Pitaro (che orbitava nel suo stesso partito) usò l’espressione “ci tagliamm ‘a testa”. Al colonnello dei carabinieri, Giamborino parlò del “contesto di Gomorra” e di essere stato avversato dalla criminalità.
L’imputato, che dal 2014 racconta di avere fatto il dirigente politico, ha ammesso di avere chiesto appoggio elettorale alla propria famiglia ma mai al cugino Salvatore Giuseppe Galati, detto “Pino il ragioniere”, vertice del locale di Piscopio, appartenente alla “società maggiore” con il ruolo di “capo società”. Sarebbero stati proprio i diretti contatti con Galati, viene contestato a Giamborino, ad assicurargli i voti della consorteria. Ma davanti al pm, l’ex politico nega di avere avuto mai contatti così stretti col cugino, al quale dice di volere “umanamente bene” ma col quale non sarebbe mai andato in auto e nemmeno Galati sarebbe mai andato a casa sua. “Non ritengo di averlo incontrato (per chiedergli voti, ndr) perché mio cugino era un giocatore di carte e questi dormono di giorno e giocano di notte”, è la spiegazione.
“Mio cugino l’ho lasciato impiegato delle Poste al nord”, dice Giamborino il quale afferma di non essersi rivolto a Galati per il voto non ritenendolo un soggetto utile. Dice che Galati dopo il carcere è stato riaccolto dalla comunità e aveva l’abitudine, dopo la partita a carte quotidiana, di andare a bussare alla finestra della sua segreteria e fermarsi a parlare con lui. “Io lo invitavo a entrare ma lui non voleva, per non danneggiarmi”, racconta Giamborino. “Mio cugino si voleva rimettere sulla buona strada”, afferma l’imputato.

I “prezzolati dello Stato”

I collaboratori di giustizia non sa come chiamarli. Chiede lumi al pm, “… pentiti, come devo chiamarli?”.
“Si chiamano collaboratori di giustizia”.
Giamborino nicchia, non lo convince molto l’espressione. In seguito li definirà “prezzolati dello Stato”.
“Non vengono pagati dallo Stato?”, chiede sardonico rivolto al magistrato.
Dice di non avere mai visto in vita sua Raffaele Moscato, collaboratore, ex killer della cosca di Piscopio. Non sa dire se Moscato conoscesse Pino Galati o meno. Racconta di avere visto per la prima volta Raffaele Moscato da una distanza di 30 metri, “perché io a 40 metri non ci vedo”. Glielo avrebbe mostrato una delle persone con le quali si stava recando in chiesa. Non conosce motivi di acredine da parte di Moscato nei suoi confronti ma dice di non temere le dichiarazioni accusatorie che gli rivolgono i collaboratori: “I cattolici non si spaventano, in Paradiso non si va in carrozza”.
Del collaboratore di giustizia Bartolomeo Arena dice che avrebbe scritto su un blog di non votarlo durante le primarie del 2014.
Come mai questa campagna contro?
“Per loro era insopportabile che uno di Piscopio non fosse avvicinabile”, sostiene Giamborino.
Un altro “prezzolato dello Stato” è Andrea Mantella che secondo l’ex consigliere regionale avrebbe fatto dichiarazioni contro di lui “per i suoi interessi”.

I rappresentanti della cultura perversa

Della grossa inchiesta che stava per esplodere sul territorio vibonese, Giamborino ne parla col cugino Galati. “Tutti sapevano che c’erano tutti questi pentiti”, dice l’imputato. “Perché Pino Galati chiedeva dell’inchiesta?”, domanda il pm.
“Credo per curiosità”, risponde Pietro Giamborino.
“E lei?”
“Io ero addetto ai lavori”, dice Giamborino che si mette, in più racconti, dalla parte dell’antimafia.
Come durante l’inaugurazione dello “Scrigno di vetro della legalità”, una struttura che, racconta l’imputato, a detta del sindaco Costa era nata grazie all’impegno del prefetto Luigi De Seta e di Pietro Giamborino. Il politico, durante l’inaugurazione, ebbe a dire che non avrebbe annoverato nelle sue preghiere coloro che a nome suo andavano a chiedere voti ai “rappresentanti della cultura perversa”. (a.truzzolillo@corrierecal.it)

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