VIBO VALENTIA Un potere indiscusso esercitato mantenendo le proprie prerogative criminali, nonostante la vicinanza al potente clan dei Mancuso di Limbadi e al boss Pantaleone “Scarpuni”. Ne sono sicuri i magistrati della Dda di Catanzaro che hanno messo in piedi l’indagine “Olimpo” che ha portato all’arresto di 56 persone. E lo hanno scritto nero su bianco nelle oltre 4mila pagine di richiesta inviata al gip del Tribunale del capoluogo catanzarese, descrivendo le dinamiche e gli assetti della ‘ndrangheta vibonese e che vedono tra i protagonisti la famiglia La Rosa di Tropea. Una famiglia tanto addentrata nelle logiche di potere e controllo del territorio al punto da diventare un punto di riferimento per “coprire” la latitanza di Giuseppe Salvatore Mancuso, classe ’89, figlio de “l’ingegnere” Pantaleone Mancuso cl. ’61. Ne sono convinti i magistrati dopo aver ascoltato conversazioni, seguito gli spostamenti dei presunti fiancheggiatori e ricostruito la vicenda risalente al 2018.
«Ma una casa fuori mani l’abbiamo a disposizione?». È l’8 settembre 2018 quando Antonio La Rosa, alias Ciondolino, finito in carcere nel corso del blitz, contatta il suo uomo di fiducia, Gaetano Muscia, 59enne anche lui finito in carcere, per chiedere informazioni. «…per quando deve stare un mese?» chiede Muscia. «Uno, un mese e mezzo» replica La Rosa. Dopo aver quindi sondato il terreno, qualche giorno dopo Antonio La Rosa chiede al padre Domenico, l’85enne “Zi Micu” nuove informazioni per capire se quel «figliolo» si fosse «buttato latitante». Lo scambio tra padre e figlio – intercettato dagli inquirenti – mostra anche una certa inquietudine di Tonino La Rosa, preoccupato che la vicenda potesse esporli a rischi elevati. «Ma forse ti avevano detto una cosa a te?» chiede Domenico La Rosa a Tonino che risponde: «Eh… me l’hanno detto pure stamattina un’altra volta». «Io non devo fare nessun movimento che sennò sono rovinato». E il padre replica: «E questi dovrebbero trovare una campagna, bello del cuore mio».
Dalle conversazioni intercettate è emerso, poi, il ruolo di Davide Surace, 38enne anche lui in carcere, quale “mediatore” che – così come ricostruito dagli inquirenti – aveva pianificato un incontro. In questa circostanza entra in gioco anche Michele Bruzzese, 41enne tra quelli finiti in carcere nell’operazione che, insieme ai fratelli La Rosa, si preoccupa dell’imminente incontro fissato per le 13. «Fra poco viene (…) no, dico io, all’una viene». Antonio La Rosa prova a convincere Michele a farsi da tramite con Davide Surace per posticipare l’incontro ma è troppo tardi. «All’una – lamenta Antonio La Rosa – come se la gente non avesse né casa e né bottega». «Ormai è a Brattirò» spiega Michele Bruzzese «dice che sta arrivando, al “Tre Stelle” dice che viene» riferendosi ad un locale della zona che i La Rosa, però, non gradiscono affatto perché troppo frequentato dai carabinieri. «Eh ma come gli è venuto al tre stelle a lui?» si chiede Antonio, e il fratello gli fa eco: «Una caserma, come quando che vai in caserma e dici “andiamo in caserma e sediamoci la». Ascoltate le lamentele, Michele Bruzzese si preoccupa di intercettare Davide Surace, ormai quasi arrivato, e di condurlo verso la “palazzina”, un luogo che gli inquirenti non riescono ad identificare ma, evidentemente, ritenuto sicuro dal gruppo.
«Sono andato a vedere questa cosa (…) siamo rovinati qua» esordisce subito Davide Surace una volta arrivato all’appuntamento. E Antonino La Rosa spiega: «Senti una cosa, perché ti avevo chiamato? Mio nipote la, Francesco, mio fratello hanno questo B&B (…) dato che coso il parente ha l’agenzia, fa contratti con l’agenzia, gli fitta le camere, se gli fa il contratto lui, pagano come pagano gli altri». In questa conversazione per i magistrati sono evidenti i problemi di libera mobilità del soggetto da alloggiare, considerando anche l’opportunità di allocarlo presso una famiglia così da favorirne anche il vitto. Maggiori dettagli emergono, poi, in un’altra conversazione captata l’11 settembre 2018 quando cioè Antonino La Rosa discute con un certo Antonio chiedendo a quest’ultimo «la chiave», cessione rinviata a dopo il 16 all’esito della visita del “proprietario” per il quale stava ultimando i lavori di rifacimento di un pavimento. «Ok me lo dici tu quando» lo rassicura Antonino La Rosa, «(…) no ma dopo ti faccio una chiave, un bel appartamentino, questo è un pezzo grosso!». «Qua – spiega l’interlocutore a La Rosa – tra dieci quindici giorni non c’è nemmeno un’anima» «si, lo so è buonissima Antonio, qua è l’ideale».
Le indagini non hanno consentito di accertare l’effettiva fruizione dello stabile individuato da Antonio La Rosa ma non è stato possibile neanche escluderne in assoluto l’utilizzo, perché i La Rosa si erano comunque interessati solo alla gestione della logistica. Per i magistrati, comunque, non ci sono dubbi che gli indagati si riferissero alla latitanza di Giuseppe Salvatore Mancuso. Anche perché le conversazioni intercettate coincidono con il periodo – dal 6 settembre 2018 – in cui proprio Mancuso si era reso irreperibile. Fino alla sua cattura avvenuta a Zaccanopoli, nel Vibonese, il 27 novembre del 2019. (g.curcio@corrierecal.it)
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