COSENZA C’è un mondo di persone invisibili che vive e lavora accanto a noi. Un popolo che garantisce servizi essenziali alle famiglie, tutelando le persone più care e affiancandole nelle varie attività che quotidianamente si svolgono all’interno delle case.
Persone in gran parte però volutamente mantenute nell’ombra e private dei diritti fondamentali che dovrebbero essere riconosciuti a tutti i lavoratori. Così nonostante la fondamentale opera che svolgono per garantire equilibri familiari, ma soprattutto per sopperire alle enormi lacune di una politica particolarmente miope nell’offrire servizi reali alle famiglie, questo mondo che vive e lavora nelle mura domestiche è praticamente sconosciuto. Una sorta di mondo parallelo.
Un popolo costituito soprattutto da colf e badanti che fa parte del variegato mondo dei lavoratori domestici. Un settore che in qualche modo non conosce crisi per numero di addetti. Anzi nel tempo è cresciuto per via, soprattutto, dell’invecchiamento della popolazione che ha portato ad innalzare il livello di domanda di prestazioni.
In Italia a dicembre del 2021, ultimo dato annuale dell’Inps, risultavano 961.358 lavoratori domestici regolari in attività nelle case degli italiani di cui circa sei su dieci rappresentati da donne straniere. Ebbene nonostante la delicatezza dei compiti assegnati e il grado di interesse per le loro prestazioni espresso dalle famiglie, questo segmento del lavoro è in assoluto quello in cui si registra il maggior numero di irregolarità. Stando ai dati dell’Inps rielaborati dall’associazione nazionale “Famiglie datori di lavoro domestico” (Domina) nel “IV Rapporto annuale sul lavoro domestico”, il tasso di lavoro nero riscontrato nel comparto supera la metà: 52,3%, contro una media nazionale del 12,0%.
L’Istituto nazionale di previdenza, infatti stima in oltre due milioni il numero complessivo di chi presta servizio nelle case degli italiani, di cui appunto oltre uno su due è a nero.
In particolare ci sarebbero 558.723 colf non censite a cui si sommano 494.899 badanti irregolari. Dati che pongono per questo il settore del lavoro domestico ampiamente in testa tra le attività grigie dell’economia italiana, visto che l’agricoltura – segmento secondo per tasso di irregolarità – segue con “appena” – si fa per dire – il 24,4%.
E l’associazione “Domina” stima in oltre 4 milioni – considerando anche i datori di lavoro – il numero di soggetti che orbitano nel settore.
Considerevole anche il contributo che questo segmento offre all’economia complessiva visto che, sempre stando ai dati contenuti nel rapporto “Domina” , il settore ha contribuito nel 2021 alla creazione di 17,6 miliardi di valore aggiunto, pari all’1,1% del Pil nazionale. Inoltre l’apporto del lavoro domestico ha consentito un risparmio – sempre nel corso dell’anno preso in esame dagli analisti di Domina – di ben 10,1 miliardi per le casse pubbliche. Si tratta cioè delle somme che, considerando solo l’attività svolta per gli anziani, lo Stato avrebbe dovuto spendere per garantire loro la cura e i servizi nelle strutture pubbliche.
E notevole è stato anche il contributo che il settore ha garantito all’Erario visto che, stando sempre ai calcoli dell’associazione Domina e della Fondazione “Leone Moressa”, le entrate fiscali totali che nel corso dell’anno preso in esame si sarebbero registrate nelle casse pubbliche, è stato pari a 1,539 miliardi.
Un valore che si sarebbe più che raddoppiato se fosse riemerso dal mondo oscuro quel popolo di lavoratori irregolari stimato in oltre un milione di persone (per l’esattezza 1.054.068). In quel caso per le casse pubbliche si sarebbero registrate ulteriori entrate per 1,650 miliardi. Un mare di risorse per garantire da un verso maggiori mezzi per sostenere, magari, servizi alle famiglie, e dall’altro per tutelare meglio chi quotidianamente si prende cura delle case degli italiani ma soprattutto delle persone più care e fragili. E nel tempo il fabbisogno di lavoratori domestici aumenterà in maniera esponenziale dato che gli scenari demografici ipotizzati dall’Istat stimano che per il 2050 gli over 79 cresceranno in Italia di 3,1 milioni e, rispetto al 2020, la popolazione che comprende anziani e bambini rappresenterà un quarto del totale. Un problema scaricato sulle spalle delle famiglie soprattutto in regioni come la Calabria dove gli asili nido restano un miraggio ed il welfare sanitario assistenziale per anziani e soggetti fragili resta totalmente fatiscente.
Passando in rassegna i dati calabresi del rapporto, emerge che i soggetti coinvolti nel lavoro domestico (lavoratori e datori) sono quasi 29mila cioè l’1,6% della popolazione.
Stando alle proiezioni dell’Inps, il totale dei lavoratori domestici regolarmente impegnati nel 2021 è stato pari a 14.424, in crescita del 1,1% rispetto all’anno precedente. Mentre nel primo semestre del 2022 (ultimo dato censito) il numero di lavoratori in Calabria è pari a 10.831 in diminuzione nel confronto del semestre dal 2021 (-16,6%).
Tracciando l’identikit del lavoratore domestico emerge una peculiarità tutta calabrese, uno su dieci è un parente o il coniuge dell’assistito. Il dato più alto del Paese. Mentre la media d’età del lavoratore è pari a 46,8 anni: al di sotto di quella nazionale.
L’altro aspetto che si collega al primo è l’alta incidenza, conseguenziale, di lavoratori italiani: oltre 4 su dieci. Seguono le persone che provengono dall’Est (27,4%) e dall’Asia (20%). Così come per il resto del Paese anche in Calabria vi è una prevalenza di donne tra i lavoratori domestici: 82,2%.
Oltre la metà dei lavoratori censiti è costituito da colf (52,7%), la restante parte di badanti.
Stando ai calcoli riportati nel rapporto, inoltre, è rilevante anche il valore aggiunto prodotto da questa categoria di lavoratori che è stata pari a circa 350 milioni di euro in un anno (l’1,2% del valore aggiunto complessivo).
Nel 2021, le famiglie calabresi per garantire la tutela dei propri cari e della casa hanno speso complessivamente 100 milioni di euro finalizzati a pagare gli stipendi, i contributi ed i Tfr dei lavoratori domestici. Anche se la media annuale della retribuzione di quanti operano tra le mura domestiche dei calabresi, resta decisamente bassa: 5.558 euro l’anno.
Una condizione che rende poco appetibile questo genere di lavoro, nonostante la crescente necessità di ricorrere ai lavoratori domestici per sopperire alla mancanza di servizi socio-assistenziali sul territorio. Un quadro che nel tempo sarà destinato a complicarsi.
Ad esempio per quanto riguarda l’assistenza agli anziani nel 2050, stando alle proiezioni dell’Istat, in Calabria ci saranno 100mila ultra-ottantenni in più. Così la popolazione anziana calabrese supererà il 15 per cento del totale. Con una conseguente necessità di ricorrere a nuovi badanti per sopperire ai bisogni di un numero crescente di over 80. Ed in assenza di politiche mirate e normative regionali a sostegno delle famiglie con anziani, il prezzo del mancato welfare sociale sarà destinato a pesare sempre più sulle tasche dei calabresi. Con un’evidente spinta a ricorrere al lavoro nero per ridurre il costo dell’assistenza domiciliare e a tutto discapito anche della finanza pubblica per il mancato incasso di tributi ed oneri previdenziali.
C’è la necessità di ripensare in maniera sostanziale a modelli di welfare nuovi. Ma anche ad interventi che rendano attrattivo il lavoro domestico di cui i calabresi avranno sempre più necessità. È questo in sintesi il pensiero di Vincenzo Fortunato, professore ordinario di Sociologia dei processi economici e del lavoro all’Università della Calabria. Secondo il docente dell’Unical, anche il mondo universitario potrebbe svolgere un ruolo centrale per creare profili adeguati ai compiti delicati, richiesti dai nuovi professionisti. Diversamente queste figure resteranno relegate a lavori marginali e sottopagati.
Professore i dati confermano che il lavoro domestico anche per la Calabria sopperisce alle lacune del welfare pubblico. E così?
«È chiaro, e la pandemia ha reso ancora più evidente le fragilità del nostro sistema di welfare, che occorre ripensare in maniera sostanziale. Il welfare pubblico poiché incapace di cogliere le trasformazioni di una società che sta cambiando profondamente e quindi di far fronte ai nuovi bisogni sociali ed economici emergenti. Il caso del lavoro domestico è uno dei numerosi esempi in cui le famiglie italiane, considerate nel nostro paese come il principale care-giver, sono costrette a sostenere ingenti spese per far fronte a situazioni di disagio, di anzianità, disabilità, spese per asili nido e servizi per l’infanzia, funzionali alla partecipazione femminile al mercato del lavoro. Questo, senza ricevere alcun sostegno dallo Stato e con servizi limitati e di scarsa qualità, soprattutto nelle regioni del Mezzogiorno. Secondo le stime ufficiali, per la retribuzione dei lavoratori domestici regolari, nel 2020 le famiglie italiane hanno speso oltre 7 miliardi di euro che diventano il doppio se consideriamo la componente irregolare, con un risparmio netto per lo Stato di circa 12 miliardi. Infatti, a differenza di altri Paesi europei (ad esempio della Germania e della Francia) nel nostro Paese c’è una sussidiarietà passiva che, se da una parte riconosce la centralità della famiglia, non si accompagna a misure e politiche di sostegno adeguate ed efficaci. Dobbiamo inoltre considerare i divari territoriali che determinano un quadro estremamente differenziato tra macro aree e, al loro interno, tra le regioni. Ed in questo senso la Calabria è particolarmente esposta».
Eppure questa tipologia di lavoro, soprattutto in Calabria, paga un forte dazio in termini di garanzia dei diritti dei lavoratori. Perché?
«Il quadro è ancora problematico, ma la situazione negli ultimi anni sta cambiando grazie all’introduzione del contratto collettivo nazionale che riguarda circa un milione di lavoratori e lavoratrici regolari, definendo gli aspetti economici e normativi per gli occupati del settore. Molto resta da fare sull’adeguamento agli standard internazionali e sul perfezionamento di una serie di aspetti che riguardano il trattamento salariale, la necessaria formazione, la disciplina delle ferie e della maternità. Sono tutti elementi sostanziali che darebbero al lavoro domestico quella dignità e qualità che ancora, di fatto, non sono completamente riconosciuti».
Anche se si assiste ad una crescita del numero di emersioni, è il settore in cui si registra il maggior numero di casi di lavoro nero. Come mai questo fenomeno è così diffuso in questo comparto?
«L’elevata diffusione del lavoro nero in questo segmento a mio avviso dipende da due fattori principali. Da una parte, la scarsa efficacia delle attività di ispezione e controllo, dal momento che per le caratteristiche stesse del lavoro domestico, il luogo di lavoro è circoscritto all’abitazione del datore di lavoro. La percentuale elevata di lavoratrici straniere, soprattutto al loro ingresso nel nostro Paese in una fase in cui sono più fragili e disposte ad accettare condizioni precarie, può contribuire a rafforzare nel breve-medio periodo questi comportamenti elusivi. A questo si aggiunge la scarsa convenienza, in termini di costi/benefici per i datori di lavoro, di regolarizzare i rapporti di impiego, evitando le rigidità e negoziando individualmente condizioni più vantaggiose rispetto a quelle previste dall’applicazione del contratto collettivo del settore. Probabilmente c’è anche un approccio culturale al tema che, come accennato prima, non attribuisce al lavoro domestico quella formalizzazione e dignità lavorativa che, di fatto, passa necessariamente attraverso la stipula di un contratto che disciplina e vincola i rapporti tra le parti».
Nonostante un mercato del lavoro asfittico come quello calabrese, questa tipologia non sembra attrarre. Soprattutto i giovani. Potrebbe costituire viceversa un’occasione per assorbire la disoccupazione?
«A mio avviso, il costante invecchiamento della popolazione, la crescente diffusione delle disuguaglianze e delle situazioni di precarietà e vulnerabilità sociale ed economica, offriranno maggiori opportunità di accesso al mercato del lavoro per i giovani anche nella nostra regione, ma con un impatto probabilmente limitato e meno esteso rispetto ad altre regioni. Parliamo comunque di percentuali molto contenute, dal momento che gli occupati con un’età inferiore ai 30 anni rappresentano solo il 6% del totale. Pertanto, non è su questo fronte che bisognerà combattere e vincere la sfida alla disoccupazione, e di quella giovanile in particolare.Occorre poi considerare che il lavoro domestico regolare si concentra prevalentemente in alcune regioni del Nord (Lombardia) e del Centro (Lazio e Toscana), più densamente popolate, con un mercato del lavoro più dinamico, un welfare locale più strutturato e inclusivo, un coinvolgimento maggiore delle realtà del Terzo settore, cui si aggiunge una forza lavoro mediamente meno istruita e più incline ad accettare e svolgere, anche temporaneamente, questo tipo di lavori rispetto alle regioni del Mezzogiorno. Al Sud e in Calabria, invece, i giovani investono molto nella formazione, hanno aspettative occupazionali e motivazioni a svolgere lavori in ambiti differenti e caratterizzati da una maggiore qualificazione professionale, sono aperti alla mobilità nazionale e internazionale. La percezione è quella di un lavoro che spetta ad altri, agli immigrati, si fa fatica a consideralo come una solida opportunità occupazionale. Il lavoro domestico, se non intervengono cambiamenti sostanziali nelle tutele e nella definizione dei profili e delle competenze ad essi collegate, può intercettate la componente meno istruita, che non ha alternative, o coloro che intravedono un’opportunità transitoria in attesa di un’occasione migliore. Il rischio, in questi casi, è il cosiddetto “effetto di intrappolamento”, simile a quello dei call center, per cui si entra, ma difficilmente si riesce ad uscire».
Cosa fare per rendere maggiormente attrattivo questo genere di lavoro?
«Poiché la domanda di lavoro in questo settore aumenterà anche per i prossimi anni, per renderlo maggiormente attrattivo è necessario investire nella professionalizzazione di quelle attività che riguardano soprattutto il lavoro di assistenza e di cura. In questi ambiti non è sufficiente ricorrere alla figura tradizionale della badante, della baby-sitter, ma occorre uscire dagli stereotipi e puntare alla definizione di profili specifici che abbiano le competenze e perché no, anche titoli di studio, per affrontare situazioni anche più complesse e diversificate. Altri aspetti importanti, connessi al delinearsi di un profilo ben preciso, riguardano una retribuzione adeguata, una chiara definizione degli orari di lavoro e dei trattamenti accessori».
Ed in questo senso cosa potrebbe fare il mondo universitario?
«L’Università è sempre un punto di riferimento importante in tutti gli ambiti della formazione ed ha un costante rapporto con il territorio. Ci sono già e da tempo, in più Dipartimenti, percorsi di Laurea che preparano al lavoro sociale e nei vari ambiti delle politiche e del servizio sociale e dei servizi educativi. Da qui si potrebbe prendere spunto per sfruttare quelle competenze e immaginare attività formative ad-hoc, corsi brevi di supporto e preparazione su temi direttamente riconducibili al contesto, ai bisogni, alle competenze di base e trasversali, di incentivazione alla creazione di organizzazioni cooperative nell’ambito del Terzo settore funzionali all’erogazione di servizi qualificarti e differenziati». (r.desanto@corrierecal.it)
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