VIBO VALENTIA Per i magistrati della Dda di Catanzaro il clan La Rosa di Tropea, sotto l’ala dei potenti Mancuso di Limbadi, avevano acquisito un potere tale sul territorio da trasformarsi in una sorta di “autorità” alla quale veniva demandato il potere di disciplinare e dirimere anche i conflitti che insorgevano tra i membri della comunità. E lo scrivono in un capitolo specifico tra le oltre 4mila pagine della richiesta inviata al gip del Tribunale di Catanzaro che ha poi portato all’arresto di 56 persone nel corso dell’operazione “Olimpo”.
Perché in diverse circostanze sia le intercettazioni telefoniche che quelle ambientali hanno consentito agli inquirenti di ricostruire una serie di episodi – allarmanti – di vera e propria sostituzione dell’autorità rappresentata dalla ‘ndrangheta a quella dello Stato. I magistrati l’hanno definita «dimensione alternativa» e, secondo le accuse, così è. Una dimensione parastatale in cui è la figura del boss a dominare e ad assumere contorni differenti a seconda delle necessità ma soprattutto il ruolo di “mediatore sociale”, vero cardine dei meccanismi relazionali, abile anche ad incentivare «la ricerca del favore mafioso in funzione di una contiguità (criminale) come endorsement alle pretese del singolo soggetto».
Una descrizione plastica che si traduce già in un primo episodio registrato. È l’11 settembre 2018 quando gli inquirenti riescono ad intercettare una prima e significativa conversazione tra Antonio La Rosa, alias Ciondolino, finito in carcere nel corso del blitz, e un tale Davide, presentatosi come portavoce della proprietaria di alcuni locali commerciali concessi in fitto ai titolari di un noto ristorante a Santa Maria di Ricadi, nel Vibonese. Interessato per il mancato versamento del canone concordato, Tonino La Rosa spiega però di aver già chiesto chiarimenti ai referenti del ristorante attraverso Davide Surace (anche lui arrestato) e il fratello, Francesco, alis “Bimbo”. «Dice che lui ha pagato sempre, non ha alcun problema con la cosa» spiega Tonino La Rosa al referente «non vorrei che sbagliassimo, là sotto alla marina è (…) siccome è uscito un mio amico ed ho mandato lui e mi ha detto “Tonino io sono andato, ho parlato ed ha detto guarda qua, ha detto, io l’ho sentita quattro o cinque giorni fa (…) gli ho detto di venirsi a prendere l’affitto ed ha detto che ora si trova in Sicilia, non abbiamo mai avuto problemi». Vista la circostanza, quindi, “Ciondolino” La Rosa invita l’interlocutore ad approfondire meglio la vicenda per escludere eventuali errori, riproponendosi di convocare all’occorrenza direttamente il proprietario del locale. «Glielo portiamo davanti se si conoscono – dice Tonino a Davide Surace – a meno che questa dice no, è questo ma ci hanno detto la fesseria a noi» «dobbiamo vedere che se è quello il locale (…) non è che magari c’è qualche parente che se lo prende lui».
Altra conversazione rilevante captata dagli inquirenti risale al 5 ottobre del 2018. Anche in questa circostanza è Tonino La Rosa il protagonista, interessato da un imprenditore attivo nell’abbigliamento, e dal figlio, per una vicenda legata addirittura ad una querela contro terzi. È proprio il figlio del commerciante a sollecitare Tonino a mandare “il bimbo” cioè il fratello Francesco La Rosa a parlare con “questi”. Secondo i magistrati, sebbene l’indagine non abbia consentito di capire l’esito della vicenda, è comunque significativo l’atteggiamento di Tonino La Rosa in qualità di garante per far ritirare le querele. «…mo va Francesco a parlare e gli firma che lui ritira la sua e lui ritira la mia» spiega un imprenditore a Tonino La Rosa che spiega a sua volta: «Eh, così siamo rimasti. Era venuto con i soldi dell’avvocato, questo e quello, gli ho detto senti qua, mi avete fatto spendere una parola con l’avvocato e tutto. Se vuoi farlo lo fai. Ho preso e l’ho lasciato lì così».
Qualche settimana più tardi gli inquirenti si imbattono in un’altra vicenda significativa. È il 25 ottobre 2018 e a parlare è ancora Antonio La Rosa, insieme al fratello Francesco e il padre Domenico alias “Zi Micu”, facendo riferimento al «figlio dell’orbo» ovvero Giovanbattista Cricelli – già detenuto per omicidio. «Come ora ha detto che non se lo caccia» «gliel’ho detto l’altra volta che ci devono pensare e se si decidono me lo dice» dice Francesco La Rosa, con il fratello Tonino che replica: «No, ha lo sfratto a dicembre, se ne deve andare e non gli sta pagando affitto non sa da quanto…». «Con l’Orbo si erano messi d’accordo (…) è da due mesi che mo’ non gli paga l’affitto» risponde di nuovo il fratello Francesco La Rosa. Il riferimento, secondo i magistrati della Dda di Catanzaro, era alla gestione dell’attività commerciale data ad un soggetto che avrebbe dovuto versare proprio all’“orbo” una quota di affitto mensile come “buonuscita”.
Ma sul punto il “Bimbo” La Rosa racconta di aver appreso indirettamente delle lamentele del figlio dell’“orbo” perché mentre durante il periodo che aveva visto arrestato l’attuale gestore del bar il padre Giovanbattista Cricelli, aveva soprasseduto al versamento delle quote convenute, a parti invertire l’interessato non si stava curando di pagargli l’affitto. «Mio padre non è venuto mai a cercarti l’affitto perché sapeva che eri arrestato. Quando sei uscito, dopo che ti sei risolto i problemi, sono venuti a cercarti l’affitto (…) mo’ che mio padre è arrestato tu non ci stai dando neanche l’affitto». A parlare è ancora “il bimbo”, Francesco La Rosa, riportando alcune lamentele che aveva appreso direttamente del figlio dell’“Orbo”. A quanto pare mentre l’attuale gestore del bar era in carcere, Giovanbattista Cricelli avrebbe soprasseduto al versamento delle quote convenute mentre a parti invertite l’interessato non si sarebbe curando di pagargli l’affitto. «Questo qua – risponde Tonino al fratello – è un coso lordo. lo sai come si sente? Eh mamma mia, si sente grande, grande, grande (…) se non vi interessa a voi questo qua che gli facciamo una passata di pistolate gli ho detto io … se non interessava venivamo, andavamo e venivamo da qua (…) lo hanno avuto detto i parenti vostri che interessa…».
L’autorità criminale di Tonino La Rosa sul territorio è stata documentata, ancora, in un altro episodio particolare ricostruito dagli inquirenti e risalente al 3 novembre 2018. Siamo in un bar a Tropea e La Rosa viene avvicinato da un tale Peppe che, sin da subito, prova a giustificarsi per un tentativo di furto avvenuto in un’abitazione. L’incontro è stato documentato dagli inquirenti attraverso le intercettazioni, ma anche grazie alle immagini di videosorveglianza interna del bar di Tropea. «(…) avevano 120 mila euro» spiega, ma La Rosa non vuol sentire ragioni: «Si ma tu vai appresso a quello storto del parente mio andate, quello è uno scemo, quello uno scemotto è (…) lo sapevo, già sapevo pure tutto io prima, non è questo, mi dispiace che sei andato tu per dire la verità». Peppe allora cerca di spiegare: «Purtroppo Tonino, mi devo risolvere che io ho impicci con delle persone e non so come cazzo devo fare». Tonino La Rosa però insiste: «(…) dice che questa qua ha rischiato di morire, dice che non c’era nessuno che se ne erano andati tutti, ma là c’era la figlia (…) c’era la figlia dice che s’è spaventata». E chiosa: «(…) ognuno deve campare però queste non sono cose belle!». Sull’argomento Tonino La Rosa ci ritorna poi la sera discutendo con il padre Domenico al quale racconta di aver incontrato Peppe il “Quaddararo” e di aver contestato al giovane di aver seguito il parente. E si sfoga: «(…) gli ho detto “puoi fare conto che non abbiamo parlato per niente che a me non interessa niente, non è che mi interessa che io non è che” (…) però è stata un’azione, questi due sventurati malati sono, pure che avevano mille lire glieli prendevate per lasciarli in mezzo alla strada? Tu dici che non hai una lira e lasci la gente in mezzo ad una strada?».
L’attività investigativa ha permesso agli inquirenti di inquadrare il caso. Si tratta effettivamente di un tentativo di rapina avvenuto il 31 ottobre del 2018, quando gli agenti del Posto fisso della Polizia di Tropea erano intervenuti nell’abitazione di una donna. Nella circostanza – è riportato nella richiesta dei pm – dopo aver procurato l’ abbattimento del portone d’ ingresso dell’ immobile, tre soggetti di sesso maschile (rimasti ignoti) «avevano intimato alla vittima di consegnare del denaro: intimazione a fronte della quale i rei si sarebbero comunque allontanati senza asportare nulla». (g.curcio@corrierecal.it)
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