VIBO VALENTIA Per anni fiumi di cocaina purissima dal Sudamerica sono arrivati in Europa e in Italia attraverso l’impegno e il finanziamento di ingenti somme da parte di alcune delle più importanti (e potenti) cosche della ‘ndrangheta del territorio Vibonese. Affari criminali che, per moltissimo tempo, si sono rafforzati lungo l’asse che dai clan calabresi portava ai cartelli e ai narcos della Colombia e del Venezuela, dando prova di un potere affaristico ineguagliabile. E che, di fatto, ha segnato la svolta e l’ascesa della ‘ndrangheta calabrese e delle cosche vibonesi. Non una novità perché quello del narcotraffico internazionale è un affare cruciale per la criminalità organizzata, lo è stato negli anni passati e lo è tuttora. Basti pensare alla recente inchiesta della Dda di Reggio Calabria che ha interessato da vicinissimo il porto di Gioia Tauro, e alle prime dichiarazioni del broker legato alla camorra, Raffaele Imperiale, che ha deciso di collaborare con la giustizia, raccontando già degli affari con i clan calabresi e i Mammoliti.
Ma, prima ancora, ad essere colpita alle fondamenta è stata l’organizzazione che, dal territorio della provincia di Vibo Valentia, con ramificazioni in alcune regioni d’Italia, riusciva ad intrattenere rapporti esclusivi con i cartelli sudamericani. Gran parte di quei soggetti che per anni hanno tirato le fila di questo imponente business, si ritrovano ora ad affrontare l’ennesimo processo. Sono in tutto 70 i soggetti chiamati a difendersi davanti ai giudici del Tribunale collegiale di Vibo Valentia, tutti coinvolti nella maxinchiesta “Adelphi” portata a termine dalla Dda di Catanzaro. Un’inchiesta tutt’altro che semplice, sia per la caratura giudiziaria, sia per la mole di episodi ricostruiti e finiti agli atti di un processo che è già storico.
Un filone investigativo imponente che affonda le radici in oltre dieci anni di storia di ‘ndrangheta vibonese, ora al giro di boa decisivo per un procedimento vasto e lunghissimo che consentito di penetrare e ricostruire, mattone dopo mattone, una struttura criminale tanto solida quanto gli affari messi in campo, collegati con i broker sudamericani per importare in Europa, in Italia e in Calabria ingenti quantitativi di cocaina. Fiumi e fiumi di cocaina purissima, attività di facciata che, al contrario, mascheravano società gestite in modo occulto e in stile ‘ndranghetistico per riciclare ingenti capitali e occultare i quintali di droga importati dal Sudamerica. Gli inquirenti nel corso dell’indagine sono risaliti alla figura del “cassiere” del gruppo, ma anche agli uomini deputati a far arrivare i carichi (ingenti) di cocaina dal Sudamerica, i co-finanziatori, e i soggetti che avevano invece il compito di far arrivare in modo assolutamente puntuale tutte le disposizioni.
Per gli inquirenti e così come riportato dai pm nelle centinaia di pagine degli atti dell’inchiesta, il potente gruppo criminale era stato messo in piedi e capeggiato da Vincenzo Barbieri, il defunto boss assassinato in un agguato il 12 marzo del 2011, quasi 12 anni fa. Insieme a lui Francesco Ventrici e il figlio di Barbieri, Francesco. Un gruppo – secondo gli inquirenti – molto ben organizzato e strutturato, attivo nel narcotraffico internazionale, ma anche nel riciclaggio e nell’occultamento del patrimonio e delle ingenti somme ricavate nel tempo. Quella condotta dalla Dda di Catanzaro è un’indagine complessa anche perché gli inquirenti si sono mossi lungo un arco temporale dilatato e all’interno di un territorio ad altissimo indice di criminalità organizzata come quello Vibonese, controllato in modo capillare dalle cosche di ‘ndrangheta, toccando località come Ricadi, Joppolo, Tropea, Briatico e Zambrone. In quei luoghi dove l’ombra dei Mancuso ha oscurato tutto per tantissimi anni. Snodo cruciale della corposa inchiesta “Adelphi” è stata l’operazione “Meta 2010” le cui indagini sono state condotte sul campo dai carabinieri di Roma e coordinati dalla Direzione distrettuale antimafia di Reggio Calabria e hanno consentito di ricostruire gran parte degli affari criminali portati avanti dal gruppo Barbieri capeggiato dal defunto boss Vincenzo Barbieri.
Quello che è emerso dall’inchiesta “Adelphi” della Dda di Catanzaro è il ruolo decisivo – e non potrebbe essere altrimenti – dei Mancuso. Il gruppo di Barbieri, così riportato negli atti dell’inchiesta, operava essenzialmente nell’alveo di influenza della cosca di Limbadi, i cui elementi erano pienamente coinvolti, finanziando le operazioni di narcotraffico internazionale nonché destinatari della cocaina. Elementi di spicco come i due Pantaleone Mancuso, “Luni Scarpuni” e “Luni l’Ingegnere” ma anche Antonio Mancuso (cl. ’83), Salvatore Cuturello, genero di Giuseppe Mancuso “Peppe ‘mbrogghia”, Roberto Cuturello e Domenico Campisi, assassinato anche lui il 17 giugno del 2011.
Quello dei Barbieri-Ventrici è da sempre un binomio indissolubile. Così come riportato negli atti dell’inchiesta, infatti, i due già da molto tempo prima dell’inchiesta “Adelphi” erano fra i più importanti e influenti brokers internazionali di cocaina, gestendo e importando ingenti quantità di droga per diverse cosche di ‘ndrangheta e soprattutto per la famiglia Mancuso, ed in particolare per il ramo dei fratelli Diego e Peppe ‘mbrogghia (cl. ’49), al cui interno operava un altro Mancuso, Giuseppe noto come “Pino Bandera”, fratello di Luni Scarpuni. Nomi di peso all’interno di uno schema tanto complesso quanto fruttuoso: Francesco Ventrici – così come riportato negli atti dell’inchiesta Adelphi – di fatto sarebbe stato il trait d’union tra il gruppo Campisi-Cuturello e Vincenzo Barbieri nelle importazioni sistematiche di coca dal Sudamerica. E poi l’inedita coalizione formata da Luni Scarpuni Mancuso, Luni l’ingegnere e Peppe Accorinti, i cui rapporti con l’organizzazione di Barbieri erano gestiti da Giuseppe Galati, a sua volta intraneo al sodalizio criminale in contrapposizione con la leadership tradizionale dell’articolazione dei Mancuso riconducibile, invece, ai fratelli Salvatore e Roberto Cuturello, le cui attività nel narcotraffico erano state affidate a Domenico Campisi, fino a quando non fu ucciso anche lui nel giugno del 2011. (g.curcio@corrierecal.it)
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