Allievo di Luigi Pareyson come Umberto Eco, Gianni Vattimo e Mario Perniola, Sergio Givone ha una rara finezza intellettuale ed è tra i più noti e apprezzati filosofi italiani. Già ordinario di Estetica nell’Università di Firenze, Givone ha sviluppato il suo pensiero partendo da un’originale rilettura della lezione ermeneutica ed esistenzialista, specie di Nietzsche, Heidegger e dello stesso Pareyson. Givone ha scritto anche opere di narrativa ed è stato assessore alla Cultura del Comune di Firenze. Con lui oggi parliamo dell’autonomia differenziata e dell’impatto che potrebbe avere nel Mezzogiorno, tema su cui il Corriere della Calabria ha avviato un intenso dibattito, tra gli altri intervistando il politologo Isaia Sales, il presidente della Regione Basilicata, Vito Bardi, e il filosofo Alfonso Maurizio Iacono.
Spesso si parla di unità nazionale e di coesione, anche in rapporto all’intera Europa. Riguardo al discorso sull’autonomia differenziata, che darebbe più poteri e maggiori responsabilità alle Regioni, manca ancora la partecipazione del Parlamento e dei cittadini. Che cosa ne pensa, professore?
«“Differenziata” è un aggettivo o un participio con valore di aggettivo. È un termine che possiamo anche mettere tra parentesi, nel senso che l’autonomia è per forza differenziata, cioè ogni Regione ha il diritto di darsi delle leggi e quindi di differenziarsi dalle altre. Il problema è proprio il regionalismo: è l’assetto regionale, che è un’esperienza ormai di molti decenni, forse in parte da rimettere in discussione. Dovremmo chiederci come il nostro Paese abbia vissuto l’esperienza delle Regioni: è un bene o un male, funziona o non funziona? In linea di principio, in un Paese come l’Italia, fatto di tanti piccoli Stati e quindi di tante piccole regioni, il regionalismo potrebbe essere benefico. Tuttavia, dovrebbe essere un regionalismo alla tedesca, cioè con una vera autonomia delle Regioni. Il nostro, invece, è uno strano ibrido: è un incrocio tra assetto regionale e centralismo. Noi non siamo né tedeschi né francesi. Come i francesi, abbiamo le Province, che sono di tradizione napoleonica e quindi prevedono uno Stato centralista. Dall’altra parte, però, abbiamo le Regioni, ancora prigioniere di un sistema centralista e quindi non in grado di funzionare. Insomma, dobbiamo decidere. Qualche anno fa uscì il problema dell’abolizione delle Province. Sembrava quello il momento di passare a un vero regionalismo, dunque a un diverso assetto dello Stato. Invece no, le Province sono state di fatto ripristinate e i due sistemi contraddittori, Stato centrale e Regioni, continuano a coesistere. Credo che sia qui l’origine di tanti guai del nostro Paese».
Crede che le riforme in questione siano pensate senza troppa analisi della realtà?
«Non solo vengono pensate senza troppa analisi della realtà, ma vengono fatte esclusivamente a partire da interessi particolari di partito, se non addirittura da interessi di persone implicate nei partiti politici».
Perché, secondo lei, c’è una grande lontananza dei cittadini dalla politica e dunque da argomenti importanti come l’autonomia delle Regioni? È un fenomeno che vediamo anche alle elezioni, con l’astensionismo fisso. Oggi ci sono troppe difficoltà di sopravvivenza, sicché ai cittadini manca il tempo di seguire ciò che accade nei palazzi del potere? Ci sono anche altre ragioni, per esempio culturali?
«In proposito ci sono tante ragioni, che potremmo esaminare dal punto di vista sociologico e da altri punti di vista. Però, se torniamo al discorso che stavamo facendo sull’organizzazione e sulle condizioni del nostro Stato, dovremmo dire che probabilmente servirebbe un sistema in cui le Regioni fossero davvero autonome e funzionanti. Nel caso, forse i cittadini avrebbero un attaccamento al proprio territorio, alle proprie città. La città è tutto in Italia: noi siamo i figli della civiltà comunale e quindi ciascuno ha nella sua città, in cui vive o è nato, proprio la radice, l’identità e così via. Proviamo a pensare che cosa succederebbe, se le Regioni funzionassero. Le regioni sono fatte di tante città, ciascuna delle quali ha una tipologia un dialetto, una lingua. Per esempio, tutte le città del Piemonte hanno una loro unità perché lì si parla il piemontese. Se il sistema delle Regioni funzionasse, i cittadini, gli abitanti delle città, i quali parlano dialetti che stanno sparendo o quantomeno hanno memoria storica di una lingua comune, sarebbero più attaccati ai problemi politici che si pongono. Il sistema non funziona perché è un ibrido. Il centralismo – e quindi il sistema delle Province, dei prefetti e così via – comporta che il cittadino sia esautorato della responsabilità politica per le scelte che vengono compiute localmente. Tutto viene rinviato a Roma e nascono poi delle proteste, magari rumorose ma che hanno un loro senso proprio. Nascono da qui il rifiuto di “Roma ladrona” e le faccende simili».
Scuola e università potrebbero giovarsi di maggiori spazi di autonomia alle Regioni?
«Io credo di sì. Penso al modello tedesco. Ho studiato in Germania, in cui ho trascorso del tempo (tra l’altro negli anni l’80 Givone è stato Humboldt-Stipendiat presso l’Università di Heidelberg, ndr). Lì ogni Regione ha un suo ministro della Cultura, che ha poteri analoghi a quelli che ha il nostro ministro dell’Università e della Ricerca. In Germania ciascuna Regione decide i contenuti, le modalità dell’insegnamento e dell’apprendimento, ciò che si fa a scuola e all’università. Non solo, ciascuna Regione finanzia e valorizza le università del proprio territorio e ha disponibilità economiche enormi, che il potere centrale non ha. Quindi, ogni Regione ha interesse a valorizzare le proprie sedi universitarie, ma appunto in un vero regionalismo. All’opposto, in Francia abbiamo un centralismo fondato sul sistema delle Province. Lì esiste tutt’altro sistema. Per esempio, ci sono scuole, dislocate soprattutto a Parigi, di alta formazione dei funzionari dello Stato, cioè l’economista, lo scienziato sociale, il politico in senso lato. Ecco, in Francia tutto nasce dal centro, tutto nasce dalla capitale. L’idea è quella, napoleonica, della diramazione dal centro delle direttive, delle impostazioni, delle linee da seguire, che appunto valgono per tutti».
Perché sull’autonomia delle Regioni non c’è un dibattito, a partire dal Parlamento? Perché non si vede un dibattito in altri luoghi della politica, che il Corriere della Calabria ha invece avviato da diverse settimane? Il discorso sull’argomento è un affare di Palazzo?
«È affare di Palazzo. Peggio ancora, è di bottega, se non addirittura di retrobottega. Prevalgono gli interessi economici. Guardi, oggi il problema principale è l’assistenza sanitaria. Che cosa si vuole con la cosiddetta “autonomia differenziata”? Le Regioni più forti puntano a garantirsi sempre più risorse. E questo, appunto, è un interesse di bottega, non è una visione politica».
Come, in questo contesto, lei vede il Mezzogiorno? C’è una questione meridionale in termini attuali?
«Temo che la questione sia sempre quella di un Mezzogiorno annesso e non riconosciuto nella sua specificità, nella sua forza, nella sua storia. È un vulnus che nasce con l’Unità del nostro Paese. Lo dico io da piemontese, lo dico con tutta l’amarezza possibile e immaginabile. Si è pensato ad annettere il Mezzogiorno e non a riconoscerlo come parte integrante dello Stato, tenendo conto dei suoi peculiari bisogni».
Di che cosa avrebbe bisogno il Paese? Oggi il discorso politico procede molto per slogan, sulla base di clamori della cronaca e senza uno sguardo di profondità. Che cosa pensa il filosofo Sergio Givone del futuro del Paese? Prima mi ha parlato del problema dell’assistenza sanitaria. Quali sono le altre priorità?
«Il problema della sanità è centrale per ogni singola regione. Qualcosa di analogo dobbiamo dire per la scuola, per l’università e per la cultura. Il nostro Paese ha risorse uniche al mondo, non solo per il meraviglioso patrimonio culturale di cui disponiamo: opere d’arte, opere architettoniche, paesaggio. Mi riferisco pure alle risorse umane, ai ricercatori che le nostre università producono. Si tratta di intelligenze che il sistema si lascia poi scappare; anzi, quasi le invita ad andarsene all’estero. Ecco, l’Italia non ha mai investito – almeno dal dopoguerra ad oggi, forse anche da prima – sulla cultura come potrebbe e dovrebbe, né ha mai saputo riconoscere nella cultura la missione del Paese. L’Italia si è invece accontentata di un turismo banale. Inoltre, al mondo della scuola e dell’università ha dato risorse con il contagocce, nonostante i livelli che riesce a raggiungere, analoghi a quelli che si registrano in Paesi come la Germania e la Francia. È vero, lei mi dirà che le classifiche delle migliori università vedono le nostre dal 30° posto in giù. Certo, ma queste classifiche risentono del fatto che abbiamo strutture spesso miserabili. Tuttavia, la ricerca che vi si porta avanti è di primissimo livello. Se io vado all’estero, se partecipo a un convegno in Germania, lo faccio da pari a pari. E ciò vale a maggior ragione per i miei colleghi scienziati, benché lavorino in strutture fatiscenti, in cui mancano mezzi, mancano aule, manca spesso l’indispensabile. Perché questo? Perché non si è saputo investire nella cultura e nella ricerca, che potrebbe essere la più grande fonte di ricchezza del nostro Paese». (redazione@corrierecal.it)
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