«Siamo tutti sulla stessa barca!», ci aveva ricordato Papa Francesco esattamente tre anni fa, all’inizio della fase più acuta della pandemia, quella delle reclusioni forzate nelle nostre case. Ma la minaccia di morte che per quasi due anni ha tenuto in ostaggio l’Occidente globale del “libero mercato”, non sembra aver insegnato nulla a chi, quel mondo, avrebbe la responsabilità di governare nel segno del bene comune.
La tragedia avvenuta al largo delle coste calabresi dopo lo spezzarsi di un peschereccio con a bordo duecentocinquanta migranti – naufragio il cui bilancio delle vittime si aggrava man mano che i soccorritori recuperano i corpi – ci dice che quella barca che dovrebbe farci sentire con-sorti, accomunati da una simile sorte, resta per ora una speranza: il mondo continua a essere diviso in transatlantici e zattere, benestanti e disperati, sommersi e salvati, stanziali e migranti per forza. Sì, perché bisognerebbe smetterla di chiamarle migrazioni: sono deportazioni indotte!
Nessuno lascia di sua spontanea volontà gli affetti, la casa, la terra affrontando viaggi rischiosi, in mano a organizzazioni criminali e in balia degli eventi atmosferici: freddo, tempeste, siccità. Lo fa solo perché costretto da un sistema economico intrinsecamente violento, sistema che colonizza, sfrutta e impoverisce vaste regioni del mondo. Lo fa perché l’Occidente globalizzato, in nome dell’idolo profitto, gli fa terra bruciata attorno offrendogli in alternativa sfruttamento se non schiavitù.
Ecco allora le “carrette del mare” alla mercé delle tempeste, ecco il Mediterraneo trasformato in un immenso cimitero marino, ecco i morti assiderati sui passi montani o asfissiati dentro i rimorchi dei Tir… Ed ecco la silenziosa carneficina che si sta consumando da almeno trent’anni sotto gli occhi di un ricco Occidente che finge di non vedere e che, quando non può farlo perché le dimensioni della tragedia lo impedisce, si palleggia responsabilità per poi tornare, passato il clamore, alla sola attività che sembra davvero interessarlo: il conflitto per la gestione del potere. Gestione dalla quale sono derivate distinzioni ipocrite, disoneste, come quella tra “profugo” e “migrante economico” – come se la ferita economica e quella bellica avessero una diversa radice – o espressioni disumane come «carico residuale», dove l’essere umano è equiparato una volta per tutte a merce, a valore di scambio.
Per fermare le deportazioni indotte chiamate “migrazioni” non basta allora stabilire accordi economici con Paesi di provenienza il più delle volte complici o addirittura agenti della logica di sfruttamento occidentale. Occorre ripartire dalla “Dichiarazione Universale dei Diritti umani” scritta dopo l’ultima guerra mondiale proprio con l’intento di archiviare una stagione di violenza, dolore, barbarie. Occorre ripartire dal valore inviolabile della persona, dal suo diritto a una vita dignitosa, libera e anche liberamente nomade: nomadismo del sentirsi dovunque a casa su una Terra dove abbiamo davvero imparato tutti a sentirci e ad agire come passeggeri di un’unica barca che procede verso il bene comune, a cominciare da quello di chi, ancora naufrago, chiede di essere accolto e riconosciuto come persona. Ma occorre, innanzitutto, imparare a riconoscere l’“altro” non solo davanti a noi ma anche dentro di noi. Altro che ci parla attraverso la voce della coscienza che, per chi ha fede, è parola che mette in dialogo con Dio, con la sua incoraggiante ma impegnativa Parola. Parola che ci insegna che il male non è solo di chi lo commette, ma anche di chi non fa nulla per impedirlo. Indifferente, inerte, e proprio per questo complice.
don Luigi Ciotti
presidente Libera e Gruppo Abele
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