«Alì dagli Occhi Azzurri, uno dei tanti figli di figli, scenderà da Algeri, su navi a vela e a remi». Con voce gutturale, quasi sospesa, Giancarlo Cauteruccio (sopra nella foto di Anna Lufrano Cauteruccio) legge al telefono alcuni brani di “Profezia”, testo in cui Pier Paolo Pasolini predisse gli sbarchi in Calabria dei più poveri del mondo, provenienti dal “sud” oppresso della Terra e in fuga verso l’Occidente.
Scosso dalla tragedia di Steccato di Cutro dello scorso 26 febbraio, il regista calabrese, tra i maestri dell’avanguardia teatrale italiana, ha organizzato una performance artistica per il prossimo 26 marzo. L’iniziativa, intitolata “Arithimòs KR46M0, KR14F9”, si terrà proprio lungo la spiaggia di Steccato: dalla mattina alla sera, a due settimane dalla successiva Pasqua, a un mese dal naufragio che ha provocato la morte di oltre 70 migranti, tra cui bambini e madri in cerca di una vita nuova.
Per l’occasione, Cauteruccio, che ha diretto a lungo il Teatro Studio di Scandicci e tra gli altri ha lavorato con i Litfiba e Franco Battiato, sta chiamando a raccolta attori, poeti, musicisti e creativi calabresi in generale, con l’obiettivo di «dare una testimonianza – ci spiega – rispetto a quell’evento di dolore incommensurabile, accompagnato da un’accoglienza e solidarietà esemplari da parte dei figli della Calabria». «Vuole essere – anticipa il regista teatrale, trasferitosi da Firenze a Sibari – un’azione artistica collettiva, che probabilmente sarà introdotta dalla lettura di quella poesia di Pasolini».
Cauteruccio continua a interpretare alcuni versi del citato capolavoro pasoliniano, prima di raccontare al Corriere della Calabria le ragioni e le spinte emotive di “Arithimòs KR46M0, KR14F9”. Prende lunghe pause nella sua lettura, vuole rimarcare l’attualità e l’esattezza della previsione di Pasolini sul popolo di «Alì dagli occhi azzurri», seguito da «migliaia di uomini, coi corpicini e gli occhi di poveri cani dei padri, sulle barche varate nei Regni della Fame», che insieme ai bambini «porteranno le nonne e gli asini, sulle triremi rubate ai porti coloniali», per sbarcare «a Crotone o a Palmi, a milioni, vestiti di stracci asiatici, e di camicie americane». E si commuove, il regista teatrale, quando ripete: «Subito i Calabresi diranno, come da malandrini a malandrini: “Ecco i vecchi fratelli, coi figli e il pane e formaggio!”. Da Crotone o Palmi saliranno a Napoli, e da lì a Barcellona, a Salonicco e a Marsiglia, nelle Città della Malavita. Anime e angeli, topi e pidocchi, col germe della Storia Antica».
«Ah, profetico Pasolini! Capito?», esclama e domanda Cauteruccio, al quale chiediamo quali sentimenti gli abbia provocato la tragedia di Steccato di Cutro.
«Ho vissuto – risponde – una sorta di spiazzamento. Una vicenda del genere è inimmaginabile, anche se noi siamo abituati alle morti nel Mediterraneo. Che il fatto sia successo a pochi metri dalla riva, davanti all’impossibilità e al grande tentativo di salvare il più possibile vite umane, mi ha posto in una condizione di impotenza e di rabbia. Ciò che mi ha maggiormente coinvolto è stata l’antica e straordinaria reazione di tanti calabresi, che, nel buio al termine della notte, hanno provato a salvare le persone che vedevano affiorare».
Che cosa, al regista Cauteruccio, hanno scatenato quelle immagini struggenti?
«Nella mia mente ho avuto di conseguenza due visioni. La prima è stata la memoria di un tratto identitario: la Calabria è da sempre terra di accoglienza e di solidarietà. In questo caso si è comportata come nei tempi antichi, nel senso che ha dato prova di carità e di compassione, ha reagito con un’umanità meravigliosa. La seconda visione, poi, mi ha generato una domanda: possibile che il mondo dell’arte calabrese, il mondo della creatività, del teatro, della musica e della danza, non dia un segnale, non dia la propria adesione alla prova di civiltà che ha già fornito la Calabria? Come sappiamo, l’artista è per sua natura attento e sensibile ai grandi fenomeni dell’essere umano, tra cui le migrazioni, che non possiamo leggere in maniera distratta, negativa».
L’artista legge la realtà con altri occhi, ne coglie la sua dimensione più profonda?
«Come artisti, dobbiamo capire che l’emigrazione, se vuoi il peregrinare, è la condizione esistenziale dell’uomo. Aggiungo che, per essere artista, chi crea delle opere d’arte deve farsi straniero. Per quanto mi riguarda, si tratta di una condizione che ho sempre vissuto sin da giovanissimo: sono stato straniero in altra terra dalla mia; mi sono voluto rendere straniero, come Samuel Beckett, nell’affrontare le principali problematiche della nostra cultura del Novecento. Allora mi sono detto, a proposito della tragedia di Cutro, che dovevo organizzare qualcosa. Da qui l’idea di considerare tutta una serie di elementi, a partire proprio dal concetto del Numero pitagorico, legato, appunto, a quella costa ionica».
Il Numero di Pitagora come superamento delle statistiche disumanizzanti?
«Sì. Ecco perché ho voluto intitolare l’azione in argomento con una parola importante, cioè “Arithmòs”, che sta per “Numero noumenico immobile”. È una parola che appartiene alla nostra civiltà. Soprattutto, oggi è come il suo significato si stesse rivoltando contro. Ora stiamo vivendo in una maniera tragica quel numero spirituale di memoria pitagorica».
In che senso?
«Veniamo fuori dagli anni della pandemia, nei quali il numero è stato un elemento fortemente tragico. Mi riferisco ai bollettini quotidiani, al numero dei morti, dei contagiati eccetera. Oggi noi ci ritroviamo con delle persone umane senza nome, identificabili soltanto con una sigla alfanumerica. Per esempio, KR46M0, che ho messo nel titolo della performance del prossimo 26 marzo, identifica la piccola bara di un neonato. Io l’ho inserito affinché gli artisti calabresi possano in qualche modo contrastare, con la poesia, con la bellezza, con l’armonia che Pitagora ci ha insegnato, questa immane tragedia, questa grave condizione nella quale la Calabria ancora una volta viene a ritrovarsi».
Papa Francesco ha rinnovato a tutti il suo «appello affinché non si ripetano simili tragedie». La politica lo sta ascoltando?
«In questo momento credo che sia necessario essere umani. Dovremmo ricordare e capire che dalla condizione umana scaturisce tutto ciò che si deve e può fare. Non so che posizione prendere dal punto di vista politico. Certo, traspare la necessità che l’Europa si apra, poiché sul piano geopolitico si trova in una posizione, in un ruolo che deve assolutamente imparare a gestire. Il fenomeno migratorio, che ha segnato tutta la nostra storia, deve essere compreso, affrontato, indirizzato nel senso dell’accoglienza».
L’auspicio che il fenomeno migratorio sia indirizzato nel senso dell’accoglienza è una speranza laica, in un contesto politico e culturale condizionato dalle polemiche e dall’indifferenza?
«Le polemiche tendono a distrarre dal nodo di fondo. Migrare è la nuova condizione del mondo. Vorrei che la mia visione personale entrasse nella mente, nei comportamenti e nelle parole della politica. Altrimenti non usciamo dalla campagna elettorale permanente. Penso che i soccorritori e i cittadini di Cutro siano proprio il grande esempio di come tutto può essere travalicato, in modo da determinare una reale pacificazione e non una falsa pacificazione, che in generale la politica pone in essere. Le false pacificazioni sono distruttive e in ogni caso inutili, portano al disastro sociale. Con la politica ho voluto tagliare i ponti nel momento in cui ho lasciato la mia terra di adozione fiorentina per ritirarmi in una campagna della terra madre, cioè nella Piana di Sibari, che racconta una storia fondamentale di evoluzione del mondo: l’arrivo e l’accoglienza».
Parliamo della performance prevista per domenica 26 marzo. Come si svolgerà? Chi coinvolgerà? Quali sono gli obiettivi, anche per il futuro? Mi pare di capire che ci sia la volontà di fissare per sempre una memoria collettiva.
«Sì. Devo dire che già stavo lavorando all’idea di mettere insieme, per quanto possibile, gli artisti calabresi. Come sai, sono multidisciplinare dalle mie origini in poi. Tuttavia, avevo già in animo di partire dal teatro, che è il linguaggio che mi appartiene di più. Stavo pensando di chiedere agli artisti calabresi del teatro di creare una sorta di incontro generale; non tanto per guardare a problematiche organizzative, finanziarie, istituzionali, politiche, ma per pensare a come recuperare le identità, le tradizioni, la natura della nostra terra. Credo che la natura selvaggia della Calabria sia uno dei valori più importanti, specialmente in questa fase postpandemica. Nel bene e nel male, la Calabria è riuscita a salvaguardare la sua natura selvaggia. Da qui, secondo me, bisognerebbe partire. Pensavo da tempo a degli Stati generali del teatro calabrese. Adesso, però, prima di diventare un incontro, un dialogo, un confronto, questi Stati generali possono essere un’azione concreta rispetto al futuro della nostra terra, dopo la tragedia di Cutro. Perciò, sto invitando tutte le realtà culturali, teatrali, musicali e rappresentative che conosco, oppure quelle che posso coinvolgere attraverso gli artisti che di solito frequento».
Quindi, che cosa accadrà il prossimo 26 marzo?
«Vorrei che ci trovassimo tutti lì, dalla mattina, per guardarci in faccia osservando quel mare che è lì, ancora forse pieno di persone disperse, e per pensare ad un’azione di testimonianza. Proporrò dei testi da leggere, dei suoni, delle musiche da interpretare eccetera. Partirei proprio da quel testo meraviglioso di Pasolini, “Alì dagli occhi azzurri”. Proprio domenica scorsa sono andato a riprenderlo, l’ho tirato fuori perché ne avevo memoria. È un testo che avevo usato, per esempio, nella mia performance intitolata “Clan, croce, destino”, quando arrivarono a Firenze i primi migranti sbarcati a Lampedusa».
L’intento è scuotere le coscienze con la poesia di Pasolini ed una reazione degli artisti calabresi?
«Come si fa a non a non reagire, quando tu rivedi le scene che Pasolini aveva immaginato? È un testo che dovrà essere per forza letto. L’aspetto più interessante è quello di avere su quella spiaggia il maggior numero possibile di artisti, il 26 marzo mattina, che insieme si ordineranno per strutturare in poche ore una performance di testimonianza che dovrebbe iniziare alle ore 17,30, proprio nel passaggio dal giorno alla notte. Parlo di testimonianza, non di spettacolo. Questo non è il tempo né il luogo dello spettacolo, è il tempo della poesia».
Giancarlo, è una testimonianza per chi?
«Anzitutto per poter restituire qualcosa alle tante persone che in maniera straordinaria hanno dimostrato la qualità di questa terra, che chiaramente contrasta tutto il negativo che della Calabria si pensa. Ed è una testimonianza per omaggiare i nostri ospiti vivi e morti, che diventano elementi fondanti di una nuova storia, di una nuova possibile evoluzione della nostra regione. Manteniamo il legame proprio con la classicità che ci è stata tramandata. Quindi la performance è anche un punto di partenza perché gli artisti possano creare una nuova luce in Calabria, unendosi e mettendosi a lavorare insieme. Dobbiamo uscire dagli orticelli che ogni artista, ogni compagnia tende a mantenersi. Lo significava anche Alvaro, nella sua “Lunga notte di Medea”».
Negli anni i fari dell’informazione sono stati puntati su Cutro per motivi molto diversi. La città ha raggiunto la ribalta mediatica per la presenza della criminalità organizzata. Ora c’è stata una risposta della popolazione locale nella direzione, completamente opposta, dell’umanità e dell’accoglienza. La Calabria ha bisogno del tragico, per esprimere un riscatto civile?
«Quello della popolazione locale è stato un atto fortemente dimostrativo, non una reazione organizzata come quella che sto stimolando perché la cultura calabrese dia un suo segnale di solidarietà e appartenenza. Dobbiamo proporre i nostri materiali letterari, musicali, filosofici, tutto ciò che significa civiltà e consapevolezza. Questo è un momento storico per la Calabria. Sono rimasto sorpreso, vedendo sulle pagine di alcuni giornali il crocefisso realizzato da un artista calabrese per lo svolgimento della Via crucis sul lungomare di Cutro. È un’immagine che mi ha molto pacificato».
Cioè?
«Ho la speranza che tutti i detriti della tragedia possano essere affidati agli artisti della Calabria, piuttosto che buttati, affinché creino una sorta di memoriale: una grande installazione che, proprio a partire da quella materia, legno, plastica, indumenti, scarpe, il biberon di plastica e tutto quanto abbiamo visto, renda quegli oggetti portatori di appartenenze, portatori di vita, di memoria».
È un richiamo alla poetica del pittore Jannis Kounellis?
«Sì. A proposito di una sua famosa esposizione artistica di mobili, Jannis mi argomentò che non si doveva considerare il singolo oggetto in sé, nella sua esteriorità, ma ciò che quegli oggetti avevano contenuto, cioè dimensioni che appartenevano a persone, a uomini e donne. Così, Kounellis portava con sé proprio quella memoria di vita che in ogni mobile c’era. Dobbiamo custodire gli oggetti delle vittime del naufragio di Steccato di Cutro. Credo che debba essere un altro gesto doveroso, proprio per non dimenticare: per rendere attiva la memoria, per renderla sempre presente». (redazione@corrierecal.it)
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