LAMEZIA TERME Le immagini rimbalzano in tv, tra gli spazi di informazione, i tg, ma anche sui social media. Chiunque è stato toccato dal dramma dei migranti di Steccato di Cutro, da quella strage di migranti salpati in condizioni disperate dalla Turchia alla volta delle coste della Calabria. E la speranza di approdare in Europa, in un mondo migliore e dove poter forse creare e in tanti casi ricostruire il proprio futuro, si è schiantata come quel barcone che ha portato alla morte di decine di persone tra cui tantissimi minori.
La riflessione, la preghiera, l’azione politica dei prossimi giorni non basteranno certo a cancellare quanto accaduto, e neanche a smorzare il dolore che accomuna la nostra regione con il mare e le decine di famiglie che piangono i loro defunti. Una narrazione che proseguirà per molte altre settimane ma se la speranza è che non si tratti del solito coro unanime destinato a silenziarsi tra poco tempo, al contempo resta vivido e incancellabile sullo sfondo lo sguardo sofferente di chi ha attraversato il Mediterraneo e quello di chi, da giorni, è impegnato in prima fila, da quel drammatico 26 febbraio, nei soccorsi e nell’assistenza dei migranti arrivati a Steccato di Cutro.
Ore e giorni di assoluta frenesia e disperazione raccontati da Rossella Colistra, giovane mediatrice culturale lametina impiegata al Cara di Isola Capo Rizzuto da ben 8 anni, con alle spalle anche la collaborazione con l’Ufficio immigrazione della Questura di Crotone. «Sono stati giorni molto intensi – dice al Corriere della Calabria – in cui ho potuto costatare come tutti si siano dedicati con l’anima e con il cuore, dalla mattina alla sera, senza mangiare, senza dormire, perché avevamo bisogno di sentirci utili. Avevamo bisogno di dedicarci completamente e in qualsiasi attività nell’aiutare i parenti delle vittime, nell’aiutare tutti in momenti molto delicati. Certo, è ancora tutto in atto, non c’è una conclusione, probabilmente non l’avrà mai perché nessuno si può rassegnare o spiegarsi veramente quello che è successo. Quindi penso che rimarremo sempre con un senso di incompletezza e di irrisolto rispetto a quanto è successo. E quindi più che dire che ci siamo impegnati con tutto il cuore per adesso non saprei che dire, so solo che questi sono stati i giorni più intensi».
L’occasione per Rossella Colistra per parlare del suo lavoro è stato l’evento “Honoris Causa – L’Università in biblioteca”, rassegna organizzata dall’assessorato alla Cultura del Comune di Lamezia Terme, nel corso della quale Colistra ha illustrato la sua tesi universitaria, illustrando la straordinaria importanza della figura del mediatore culturale. «Penso sia molto importante spiegare il ruolo, fondamentale per capire i migranti stessi, per capire le difficoltà che incontrano, ma anche per meglio comprendere le ragioni per cui loro lasciano i loro Paesi. Spesso noi non ci poniamo queste domande ma questo ci aiuterebbe a capire loro e anche poterli accogliere in maniera dignitosa». «Il mediatore culturale – ci racconta – è il ponte, il tramite tra il migrante che è straniero, che si trova a comunicare in una lingua che non gli appartiene, ma anche ad affrontare una cultura diversa. Quindi il mediatore è la figura che si interpone non solo per tradurre banalmente da una lingua all’altra ma per mediare tra una cultura e l’altra e quindi far sì che ci sia una comunicazione efficiente tra figure istituzionali, medici, personale della pubblica amministrazione e qualunque figura professionale».
Occasioni così drammatiche e tragiche come il naufragio di Steccato di Cutro pongono maggiormente l’accento sull’importanza che ricoprono i mediatori culturali, accogliendo decine di superstiti e rapportandosi con le famiglie devastate dai lutti. Perché «oltre ad avere competenze tecniche per poter effettuare il mestiere di mediatore – ci spiega – bisogna anche essere empatici senza allo stesso tempo farsi troppo coinvolgere e per poter capire questi momenti di profondo sconforto, traumatici, che i migranti attraversano e per poterli anche accompagnare in un percorso di ripresa e di rinascita». E quando le chiediamo cosa le è rimasto più impresso di questi ultimi giorni, non ha dubbi: «Sicuramente il momento in cui le famiglie erano all’interno del Palamilone dove sono state momentaneamente sistemate le salme, l’istante in cui le famiglie si avvicinavano alle bare per il riconoscimento, le loro urla che riecheggiavano. Questo è stato uno dei momenti più brutti di questi giorni».
Il sistema di accoglienza, ma innanzitutto di soccorso, va sicuramente migliorato ma, ci spiega Rossella Colistra «ci sono molti aspetti sottovalutati. Chiaramente le azioni sono fatte sempre dall’alto, però se anche noi ci sensibilizziamo nel quotidiano, nel piccolo e in quello che possiamo fare, forse il sistema si può cambiare dal basso. Penso che bisognerebbe parlarne di più, bisognerebbe approfondire l’argomento e penso che ci sia sempre un filtro, ci sia sempre un “noi” e “loro”, penso che bisognerebbe andare oltre questo concetto e chiedersi queste persone, chi sono? Cos’hanno diverso da noi? Perché scappano? Penserei che se qualcuno è partito, si è imbarcato in condizioni di profonda difficoltà e soprattutto di viaggio precarie, perché l’ha fatto? Mi porrei questa domanda».
Non ha bisogno invece di domande Nicola Emanuele, responsabile di “Luna Rossa” della Comunità Progetto Sud che ospita proprio a Lamezia Terme uno dei minori superstiti. «Il flusso migratorio – spiega – non si può fermare in questo modo, ma bisogna imparare anche a convivere con un fenomeno di movimento dei popoli, un fenomeno che non si fermerà né con gli irrigidimenti, né con i campi, ma va semplicemente favorito e vanno aiutate le persone a esprimere e a realizzare sé stessi, perché sono persone, non sono irregolari, né migranti, né persone che stanno violando la legge. Sono persone che stanno cercando un’alternativa alla loro vita di guerra, di povertà, di violenza e di morte. È come voler fermare un flusso d’acqua con un dito».
«Abbiamo avuto l’occasione finora – ha spiegato infine l’assessore Giorgia Gargano – di ascoltare degli studi che sono un vero patrimonio di questa città, significa intanto valorizzare competenze giovanili che sono sul territorio e, soprattutto, dare uno spazio di espressione ad una generazione che spesso dai luoghi canonici della cultura in città si sente esclusa, tenuta fuori, e forse lo è davvero». (g.curcio@corrierecal.it)
x
x