GIOIA TAURO La location pare adatta per un summit di ‘ndrangheta: il cimitero di Gioia Tauro. Appuntamento alle 11 del 3 dicembre 2020 «nella parte “nuova”». Un luogo «ritenuto sicurissimo e certamente non presidiato dalle forze dell’ordine». Evidentemente – sottolineano i magistrati antimafia che hanno firmato l’inchiesta “Hybris” – «l’oggetto dell’incontro e la caratura dei partecipanti obbligava l’adozione di massime precauzioni». I partecipanti, appunto: uno è Antonio Molé detto “u Jancu” (33 anni), finito in carcere nell’operazione e considerato il reggente dell’omonima cosca. Sarebbe arrivata da lui la proposta di riunirsi nel camposanto per evitare i controlli. L’opportunità dell’incontro nasce dalla necessità di trovare un accordo sulla gestione criminale di uno dei business in cui le cosche hanno messo le mani: il controllo del mercato ittico. L’occasione nasce dopo l’incendio di un peschereccio in un cantiere navale alla Tonnara di Palmi nell’ottobre 2020. La vittima del danneggiamento, invece di denunciare, cerca la copertura mafiosa dei Piromalli che, quindi, aprono un dialogo con i Molé che sfociato nella pace raggiunta durante il summit al cimitero. A occuparsi, per conto del clan Molè del «controllo sul mercato del pesce a Gioia Tauro» sarebbe Ernesto Madaffari alias “u Capretta” (48 anni).
L’indagine dei carabinieri, però, permette di ricostruire le dinamiche della cosca Piromalli nei mesi antecedenti alla scarcerazione del boss Giuseppe Piromalli, detto “Facciazza”, avvenuta nel maggio 2021 dopo 22 anni di detenzione. È in questo contesto e grazie alle intercettazioni, che la Dda registra un riavvicinamento tra i Piromalli e i Molé a distanza di 15 anni dall’omicidio del boss Rocco Molé avvenuto il primo febbraio 2008. Stando agli investigatori, infatti, i luogotenenti dei Piromalli volevano ripristinare una partnership con i Molé, che avrebbe reso più semplice il raggiungimento degli obiettivi strategici di natura illecita. La ripresa dei contatti tra le due famiglie di ‘Ndrangheta ha riguardato il controllo del mercato ittico e, in particolare, nell’ordinanza, il gip Stefania Rachele ha sottolineato la «sistematica attività estorsiva ai danni degli imprenditori». A uno di loro è stata imposta l’assunzione degli affiliati in una fabbrica attiva nella zona industriale del porto di Gioia Tauro.
L’incendio del peschereccio rischia di aprire un nuovo fronte nella “guerra fredda” tra i due clan. L’imprenditore danneggiato rivendica la protezione dei Piromalli, i Molè negano di aver compiuto l’attentato. Aurelio Messineo, considerato dagli inquirenti uno dei vertici della cosca Piromalli, sollecita il proprio sodale Cosimo Romagnosi «a convincere» l’imprenditore «affinché non assumesse pericolosi atteggiamenti arroganti e impulsivi». La trattativa tra le due fazioni è aperta e riguarda anche altri affari. La rabbia del “protetto” deve essere ridimensionata: Messineo ribadisce «con fermezza che non c’è spazio per vendette e ritorsioni», pena il ritiro dell’appoggio dello storico casato mafioso.
Serve un incontro con i Molè. Non soltanto con Antonio “u Jancu” ma anche con suo zio, «giudicato più “maturo” e più affidabile per la definizione della vicenda». «È ragazzo ancora, Cosimo», dice Messineo. «Il comportamento del giovane Molè – appuntano i magistrati antimafia – veniva stigmatizzato dai conversanti in quanto egli, dopo un primo incontro preliminare, non si era prontamente attivato per fissare un nuovo incontro manifestando un disinteresse alla vicenda, determinato, secondo i conversanti, dal fatto che il Molè, arrivato a quel punto, aveva compreso che non avrebbe ricevuto un tornaconto personale dalla questione». Gli equilibri criminali nella Piana di Gioia Tauro sono sempre fragili. Messineo vuole «garantire il “quieto vivere”» ovvero mantenere «buoni rapporti con la compagine Molè» nonostante si sia scontrato «col menefreghismo del giovane Molè». La conversazione è un guida ai nuovi assetti delle cosche della Piana. «Il dialogo (…) trascende il caso concreto e restituisce plasticamente uno spaccato degli attuali assetti delle consorterie Piromalli e Molè, anche per quanto attiene all’individuazione dei soggetti che rivestono una posizione apicale in seno alle stesse all’epoca dei fatti per cui procede, da individuarsi, nella cosca Molè, in Antonio Molè, Ernesto Madafferi e Antonio Albanese e, per i Piromalli, in Salvatore Copelli e Aurelio Messineo».
La sera del 1° dicembre 2020 arriva l’«agognata risposta» di Antonio Molè sulla fissazione del nuovo incontro. L’incontro viene documentato nella richiesta dei pm. Da un lato vi sarebbero Aurelio Messineo e Cosimo Romagnosi, dall’altro Antonio Molè “u Jancu”, Guido Pavia, Antonio Albanese “u Barberi” e Giacomo Previte, «allo stato latitante». Da una successiva intercettazione ambientale «captata durante un confronto tra Cosimo e Domenico Romagnosi emergeva che al summit era intervenuto anche» il proprietario del peschereccio dato alle fiamme e «che i contrasti tra quest’ultimo e i componenti della cosca Molè erano stati definitivamente appianati».
Per il gip «questo episodio ha l’indiscutibile valore di documentare non solo la posizione apicale assunta da Aurelio Messineo in seno alla cosca Piromalli e da Antonio Molè – oltre a quelle di Albanese e Madafferi – in seno alla cosca Molè, ma anche come, attesi gli equilibri fortemente vacillanti tra le due storiche ‘ndrine, la convivenza venisse assicurata mediante confronti che di volta in volta si rendevano necessari per la gestione delle singole problematiche». Una vicenda «assolutamente eloquente su come ottenere “protezione mafiosa”, su come le ‘ndrine si mettono a confronto, sulle dinamiche criminali che governano i rapporti mafiosi tra le diverse famiglie di ndrangheta». (p.petrasso@corrierecal.it)
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