Lona-Lases è un piccolo borgo di 872 anime nella Val di Cembra nel Trentino Alto Adige. Due villaggi uniti da una diaspora nata dalla dissoluzione della Magnifica comunità pinetana e che decisero di mettersi assieme attorno ad un lago. Un paese di cavatori di porfido. L’oro rosso, lo chiamavano da queste parti. Nel quadrilatero tra Albiano, Fornace, Basalga di Pinè e Lona-Lases sorgevano 85 cave e 300 ditte. Paesini molto piccoli. A circa venti chilometri dal capoluogo Trento.
Qui la colonizzazione della ‘ndrangheta è avvenuta in modo silente e strisciante. Il trasferimento dei calabresi del clan è riuscito ad appropriarsi dell’economia locale, delle istituzioni, di una complicità omertosa fino a quando magistratura e Ros hanno sgominato l’esistenza di un locale di ‘ndrangheta e messo fine ad una storia poco nota ma molto inquietante nei suoi risvolti.
Lona-Lases, come a volte è capitato a San Luca e Platì, è senza sindaco da diverso tempo. Riesce difficile trovare anche i commissari prefettizi. Nella piccola comunità nessuno vuole metterci la faccia e l’esercizio della democrazia. Troppo rischioso firmare le delibere macchiate dall’infiltrazione mafiosa e va aggiunto che la macchina comunale si è indebolita e i bilanci sono andati in rosso per le ruberie della ‘ndrangheta.
Per scoprire affari, protezioni e reti di colletti bianchi ci sono voluti anni. Nel 2020 l’Operazione Perfido ha arrestato 19 persone, indagato calabresi e trentini, scoperchiato pentole di un caso insolito nel placido e immacolato Trentino. Qui negli anni Sessanta le cave avevano attirato molti lavoratori meridionali. Poi negli anni Settanta la gran parte erano andati via. A metà degli anni Ottanta i calabresi che arrivano su quelle lontane montagne sono differenti.
Pietro e Giuseppe Battaglia fanno parte di questa generazione. Si presentano come una sorta di giramondo in cerca di avventure e nuovi orizzonti. Frequentano anche la sezione locale dei comunisti. La figlia del segretario della sezione, Giovanna Casagrande, diventerà la moglie di Giuseppe fianco a fianco nella sua scalata al successo. All’avvento del nuovo secolo, dopo aver aperto delle ditte, i Battaglia si lanciano in un affare a molti zeri. Comprano la cava di Camparta, il più grande sito estrattivo di porfido al mondo. Offrono 12 miliardi di lire. La cava ne vale 6. Più di qualcuno s’insospettisce. Nelle intercettazioni si ricostruisce che i soldi arrivarono in contanti dalla Calabria e furono messi sul tavolo in un’operazione di monopolio. Battaglia controlla i voti per l’elezione del sindaco, si presenta una sola lista che deve vincere solo sul quorum. Il Comune gestisce anche l’Asuc, la concessionaria dei beni demaniali per l’estrazione. Una sorta di far west con conflitti d’interessi abbastanza evidenti che concentrano tutto nelle mani di pochi. Nella recente prosa giudiziaria si legge che questo fu possibile grazie «alla prolungata sottovalutazione da parte degli inquirenti del fenomeno, sia a connivenza da parte di soggetti di questa provincia».
A Lona-Lases erano arrivate molte persone da Cardeto, periferia di Reggio Calabria, paese che ha il doppio degli abitanti del colonizzato paese del Trentino.
Innocenzo Macheda detto Ceggio, ritenuto il capo del Locale, viene intercettato mentre va in vacanza a Merano con Antonio Serraino, appartenente ad uno dei più antichi e potenti casati della ‘ndrangheta calabrese. Sta scritto nella sentenza Epilogo nei loro confronti: «Talmente potenti da poter ricattare o minacciare qualunque organo legislativo».
Mentre vanno in vacanza dice Serraino di Trento «una città bianca senza malizia, i calabresi maliziosi quando hanno visto che non girava droga hanno fatto soldi della Madonna». Si apprende che Macheda è stato chiamato da Battaglia, si è messo in un albergo e a disposizione possedeva 10 milioni di contanti. Nelle intercettazioni si parla anche di zone e confini in termini mafiosi e di stare ognuno nei propri interessi. Il 29 agosto del 2018 qualcuno si prese la briga di incendiare la Nissan di Macheda. La locale a chi aveva fatto lo sgarro? Per gli investigatori a qualcuno venuto da lontano che aveva chiesto fatture false in quell’enorme riciclaggio di denari.
‘Ndrangheta silente ma quando era necessario mostrava il ghigno duro. Nelle cave i lavoratori erano stranieri. Trattati come schiavi. Il 2 dicembre del 2014 un operaio cinese entra in un cantiere del porfido. Vanta arretrati di stipendio per circa 35mila euro dal suo padroncino macedone. Non trova nessuno e danneggia un macchinario per rabbia. Escono due scherani stranieri con una pistola. Lo colpiscono con una torcia fino a farlo svenire. Calci, morsi e con un pezzo di ferro trafiggono la gamba. Lo legano e continua il pestaggio. Tutto su ordine dei calabresi di Cardeto che in questo modo tenevano l’ordine a Lona-Lases.
In queste terre di antiche cooperazioni sociali era nato un organismo di base fin dal 2014 attento a salvaguare l’ambiente e controllare il sistema del porfido andato in malora. Il “Coordinamento lavoro porfido” aveva evidenziato la presenza di dipendenti stranieri in lotta per il permesso di soggiorno, analfabeti e in difficoltà. Gli italiani rimanevano dipendenti delle ditte concessionarie, i dannati della terra finivano sotto i padroncini senza contratto e con il cottimo puro.
Nell’inchiesta Porfido c’è anche Trento. All’ombra del Castello è finita sotto la lente inquisitoria anche l’associazione Magna Grecia che tra tarantelle e dotte discussioni sui Bronzi di Riace faceva da paravento alla cosca come ha stabilito un rito abbreviato. E poi c’è un calabrese illustre, cavaliere e “faccendiere” secondo gli inquirenti «capace di attrarre nella sua ragnatela personaggi di spicco che possono tornare utili». Ci sono cene con la solita capra che hanno segnato il nome di un magistrato di Trento assieme al cavaliere che cerca di sapere i contenuti dell’indagine e che in agenda aveva frequentazioni con ufficiali, politici, ex prefetti. Tasselli complessi che stavano sopra le cave.
Eppure uno studente universitario che conosceva la teoria del fortini, che vede la ‘ndrangheta insediarsi in piccoli comuni con due carabinieri e dove è in grado di controllare facilmente il voto aveva capito tutto prima dell’inchiesta.
Alberto Marmiroli, studente di sociologia a Trento con una sua tesi aveva compreso che nelle cave si era insediata la ‘ndrangheta e scrisse in tempi non sospetti: «È una narrazione che piace molto quella dell’isola felice perché fa sentire migliori di altri, calabresi, campani e siciliani. Come spiegano i medici, però, non si possono avere anticorpi di una malattia che non si è mai avuta. E in Trentino ci sono ricchezza diffusa, attività tradizionali e piccoli Comuni, oltre a una popolazione con una scarsa percezione: sono dell’idea che il Trentino per uno ‘ndranghetista sia il territorio perfetto». Lo studente aveva messo in asse anche un carico di 200 chili di cocaina trovati in mezzo al porfido dalla polizia spagnola proveniente da un porto della Patagonia. Il mittente faceva capo a degli imprenditori trentini.
Nel 2017 erano state circa 1000 le operazioni sospette di riciclaggio. Lo storico Nicola Tranfaglia in suo articolo aveva scritto: «Il Trentino sembra non accorgersi di nulla. Le cosche gestiscono molti affari riuscendo a mimetizzarsi alla perfezione senza richiamare l’attenzione di nessuno».
Ma è cambiato poco. Nicola Morra da presidente della Commissione Antimafia aveva denunciato vecchi silenzi ed omissioni della politica locale in conferenza stampa. Il consigliere provinciale leghista Alessandro Savoi disse in quell’occasione: «Sono allibito dalle parole di Morra che viene dalla regione più mafiosa d’Italia ed è venuto qui in Trentino, portato dai grillini, per darci dei mafiosi. Non a caso i maggiori indagati nell’operazione Perfido sono calabresi e vengono proprio dalle zone dell’onorevole Morra, mentre i cembrani (gli abitanti della Val Cembra) sono gente onesta e per bene. Tornino a casa loro e si ricordino che al nord la mafia l’hanno portata i siciliani e i calabresi». Nel Trentino di Lona-Lases dove mille abitanti non riescono ad eleggere un sindaco come accade a San Luca e Platì. (redazione@corrierecal.it)
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