REGGIO CALABRIA «Custode e arbitro dell’ordine confederativo ‘ndranghetistico» a Reggio Calabria «è la cosca De Stefano, capeggiata da Carmine De Stefano, in ragione del proprio prestigio criminale e della forza attrattiva esercitata nei confronti di esponenti di famiglie un tempo rivali». I De Stefano sono il cuore del “sistema”, ma a muovere la criminalità organizzata reggina non è il motore di un solo clan. Lo spiega il gup Francesco Campagna nelle motivazioni della sentenza Epicentro, emessa nello scorso mese di luglio: «Le risultanze processuali documentano l’esistenza di un’ampia confederazione di cosche sul territorio reggino». Il dato nuovo emerge al termine del processo (l’accusa è stata rappresentata in aula dai pm Stefano Musolino, Walter Ignazitto, Nicola De Caria e Giovanni Calamita) che ha portato a 53 condanne per boss e luogotenenti delle principali famiglie mafiose di Reggio Calabria: De Stefano-Tegano-Molinetti, Libri, Condello, Barreca, Rugolino, Ficara, Latella e Zito.
A proposito di famiglie: «Gli inquirenti – scrive ancora il gup – hanno compiutamente dimostrato che il controllo delle attività estorsive sul centro di Reggio Calabria fosse appannaggio delle quattro cosche di ‘ndrangheta con maggiore peso specifico criminale, nello specifico si tratta delle cosche De Stefano, Tegano e Condello di Archi e della cosca Libri di Cannavò». Nel contesto della confederazione, si manifesta una «dimensione unitaria della gestione del territorio», un «sistema congegnato» il cui scopo è quello di non consentire «vuoti di potere così favorendo la stabilità della gestione degli affari criminali dell’organizzazione nel suo complesso». Il risultato è «una macchina ben rodata e organizzata, che in maniera corale soffoca qualsivoglia afflato di normalità dell’iniziativa economica su tutto il territorio reggino». L’attività della Dda di Reggio Calabria guidata da Giovanni Bombardieri e dall’aggiunto Giuseppe Lombardo ha portato a molti arresti e a operazioni antimafia che hanno colpito i clan. Le quattro cosche egemoni, tuttavia, «continuano a mantenere il dominio sul territorio del Mandamento di Reggio Centro».
Su tutti svettano gli “arcoti”: «il gruppo De Stefano-Tegano costituisce un caso paradigmatico del “modello mafioso”, divenendo altissimo il livello dei mezzi utilizzati e delle finalità perseguite di controllo di ogni attività economica, istituzionale e sociale nel territorio calabrese». Il dato storico rimanda ai tempi in cui le faide avevano messo i clan l’uno contro l’altro. È, infatti, «a partire dalla conclusione della seconda guerra di mafia, nei primi anni 90» che si sarebbe consolidata «una realtà criminale confederativa, basata su un sistema consuetudinario di regole vincolanti». Da quel momento in poi, il sistema si sarebbe stratificato «attraverso la crescente adesione delle varie cosche operanti sul territorio reggino».
«Le risultanze del procedimento Meta – argomenta il gup – hanno svelato la creazione di un direttorio, costituito dalle più importanti famiglie di ‘ndrangheta della città. Gli eventi della seconda guerra di mafia (combattuta negli anni dal 1985 al 1991), infatti, hanno condotto i massimi esponenti delle cosche a trovare un punto di equilibrio, indispensabile anche al fine di poter gestire al meglio le illecite attività sul territorio. Si è assistito, quindi, alla realizzazione di un vero e proprio organismo decisionale, costituito dai capi delle cosche De Stefano, Tegano, Libri e Condello,in grado di sovrintendere e coordinare tutte le altre consorterie mafiose presenti sul territorio, alle quattro, suddette, famiglie a vario titolo confederate». Il maxi-processo ha riguardato gli imputati coinvolti nelle inchieste “Malefix”, “Nuovo corso” e Metameria”. A vent’anni di carcere sono stati condannati boss come Carmine De Stefano, suo zio Orazio De Stefano, Filippo Barreca (già ergastolano), Demetrio Condello, Antonio Libri e Luigi Molinetti.
È proprio a Molinetti e alle sue spinte secessioniste che l’inchiesta e la sentenza dedicano un capitolo. Storico sodale degli arcoti, “Gino la Belva” ricorda la seconda guerra di mafia, una mattanza da quasi mille morti.
«Io di questa storia… del paese non è rimasto nulla… i ragazzi non sanno nulla… Sono passati trentasette anni», dice al fratello Alfonso, condannato nel processo a 12 anni e 2 mesi. «È passato tanto tempo Gino – risponde l’interlocutore –. A chi gli hanno ammazzato il padre, a chi gli hanno ammazzato un fratello ed ogni tanto se lo ricordano… chi cerca una perdita… ma se no le cose…». «Reggio è maledetta… – continua Alfonso Molinetti – e per niente ci fanno fare trent’anni di galera». Questo «niente» in realtà riporta a intercettazioni nelle quali si delinea uno scontro interno che rischia di diventare una faida. Quando un nipote di Molinetti propone di cercare una mediazione con Orazio e Paolo Rosario De Stefano, il commento degli “scissionisti” non è tenero: «Hai fatto bene a maltrattarlo. Ma gliel’hai detto che non ti ammazzo perché sei il nipote di mio fratello? No… glielo potevi dire!… Se non fosse stato per mio fratello ti avrei tagliato la testa qua ti avrei sotterrato… a te e a chi ti viene dietro…». È il figlio della “Belva”, poi, a parlare così del boss Carmine De Stefano: «In mezzo alla strada gli buttavo la benzina di sopra, accendevamo e poi scappavamo… gli dovevi dire… perché io in una settimana ti sistemo, schifoso di merda digli… sennò prenditi i bagattelli (le valigie, ndr) e vattene… perché vi brucio a tutti, parto dal Mercatello (storico quartiere dei De Stefano, ndr) e arrivo… a tutti vi brucio a casa». Ci sono i presupposti per una faida sanguinosa. Sarà l’operazione “Malefix” a bloccarla. (ppp)
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