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l’udienza

Rinascita, le parole di Mangone: «Telefonini in carcere per Ferrante e la fabbrica di scarpe di Delfino coi soldi dei Mancuso»

La rabbia degli imputati contro le prove portate dalla Procura. La perquisizione senza esito a Ferrante «perché era tutto dalla figlia»

Pubblicato il: 20/03/2023 – 20:36
di Alessia Truzzolillo
Rinascita, le parole di Mangone: «Telefonini in carcere per Ferrante e la fabbrica di scarpe di Delfino coi soldi dei Mancuso»

LAMEZIA TERME  Antonio Mangone parla, collegato con l’aula bunker di Lamezia Terme dove si sta celebrando il processo Rinascita Scott. Il suo eloquio a tratti è veloce, difficile da afferrare. È un teste dell’accusa, ma sia il pm Andrea Mancuso che l’avvocato della difesa Enzo Galeota devono in più occasioni chiedergli di andare più lento nelle risposte, di restare nel contesto oppure di essere più preciso.
Mangone, 58 anni, originario di Cariati ma residente a Legnaro alle porte di Padova, si è trovato a condividere la cella nel carcere di Siracusa, nel 2021, insieme a due imputati di Rinascita: Gianfranco Ferrante, imprenditore accusato di essere intraneo alla cosca Mancuso, e Michelangelo Barbieri considerato organico alla cosca di Zungri comandata da Giuseppe Antonio Accorinti.
Da loro avrebbe ascoltato dialoghi e racconti, improperi e schizzi di veleno contro Gratteri, i suoi magistrati e i collaboratori di giustizia. «C’era un odio mortale nei confronti del dottor Gratteri», dice Mangone infervorandosi. Parole dure espresse dai detenuti di Rinascita nei confronti del magistrato anche quando questi si presentava in aula per il processo. Un processo che innervosiva perché, per esempio, «Barbieri diceva che il processo stava andando nel verso sbagliato perché tutte le accuse che portava la Procura erano vere e i collaboratori erano attendibili». Mangone fa i nomi di soli due collaboratori: Mantella e Giampà. Per il resto, dice rispondendo alle contestazioni della difesa, gli imputati mandavano strali e minacce ai collaboratori in generale. Altri nomi non ne ricorda.

I telefonini usati in bagno

Tra le altre cose, Mangone avrebbe osservato l’uso di piccoli cellulari in carcere. Li usavano anche Ferrante e Barbieri, dice il teste, nascondendosi in bagno per parlare. Ma, quando nel carcere di Siracusa vennero sequestrati dei cellulari, questi non vennero trovati in possesso dei due imputati. Secondo Mangone – che risponde alla domanda di Galeota – i due prendevano, e poi restituivano, i cellulari da due vicini di cella, un pugliese e un napoletano dei quali non ricorda i nomi. 

I panetti di droga e Pittelli che risolve i problemi

Mangone parla anche di droga. L’argomento l’avrebbe ascoltato da Ferrante che raccontava, dice il teste, di panetti di cocaina e di traffici di droga che dovevano fare con Bonavota il quale dal canto suo si sarebbe lamentato di avere rimediato una condanna a 9/10 anni per droga. L’argomento stupefacenti Mangone lo percepisce come un fatto recente ma non sa dire di più, non sa dove venissero venduti questi panetti.
«Quando si parlava di Rinascita Scott si parlava di Pittelli. La risoluzione dei problemi era Pittelli», dice Mangone. Secondo il teste «tutte le ‘ndrine importanti della Calabria parlavano dell’avvocato Pittelli, oggi imputato con l’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa. «Ferrante diceva che aveva contatti diretti con Pittelli – aggiunge Mangone –. Il Pittelli fa parte della famiglia Mancuso. Gestiva direttamente tutte le problematiche della famiglia Mancuso, per esempio nella sanità, pubblica amministrazione, faceva conoscere persone importanti». Secondo Mangone, soprattutto Ferrante diceva che Pittelli «aveva la possibilità di agire e risolvere i problemi anche dai domiciliari».

La fabbrica di scarpe di Delfino

In carcere Antonio Mangone ha anche sentito parlare di Antonino Delfino, imprenditore accusato di avere realizzato un rapporto di do ut des con le cosche vibonesi mettendo, in particolare a disposizione del boss di San Gregorio D’Ippona, Saverio Razionale, imprese e conti correnti. Ferrante avrebbe raccontato che Delfino aveva una fabbrica di scarpe a Roma. Ma questa fabbrica non apparteneva solo a lui era «anche nostra» perché ci avevano messo i soldi. Delfino confermava quello che diceva Ferrante e avrebbe aggiunto che la famiglia Mancuso aveva contribuito a costruire la sua attività. 

Il controesame. «Non ero “il picchiatore»

Antonio Genesio Mangone è stato condannato, in appello, a 12 anni e 8 mesi per associazione mafiosa ed estorsione. L’inchiesta è “Camaleonte” della Dda di Venezia contro la presenza della cosca Grande Aracri di Cutro in Veneto. Nel corso del controesame con l’avvocato Galeota, il teste dice di avere confessato i reati di cui era accusato e di avere accusato anche i suoi vecchi compagni. L’uomo, che non ha lo status di collaboratore di giustizia, non è stato ammesso in un programma di protezione testimoni per i fatti di Venezia. Dice di avere avuto problemi col procuratore dell’epoca e che oggi sta risolvendo la questione che è in mano al suo avvocato. Non ama parlare dei suoi fatti e più volte dice: «Ma qui dobbiamo parlare del processo Rinascita Scott». Non si entra però nello specifico del suo passato perché Mangone non è assistito e, come ha fatto notare il pm, se si trattano argomenti che riguardano reati si ha bisogno di un difensore.
Mangone di non avere mai fatto parte di una associazione mafiosa. Poi specifica che non era solo lui ma che c’erano anche imprenditori e altre persone.
Dichiara che non aveva l’alias di “Il picchiatore” e che con alcuni soggetti vi era «un rapporto commerciale, nessuno è finito all’ospedale». Spiega che i racconti di Gianfranco Ferrante a volte li ascoltava anche se erano destinati ad altri, altre volte erano destinati a lui. Come quella volta in cui si parlava di sequestri perché Mangone aveva subito dei sequestri, invece Ferrante diceva che durante la perquisizione non gli avevano trovato nulla perché era tutto a casa di sua figlia. Qui la difesa contesta il fatto che Ferrante stesse invece parlando con Barbieri.
Il teste dice che non ha esperienza di ‘ndrangheta, non sa cosa siano le doti di ‘ndrangheta. Afferma che tutto quello che ha raccontato è vero, è solo la verità. (a.truzzolillo@corrierecal.it)

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