LAMEZIA TERME «Loro (la Dda di Venezia, ndr) dicono cosca Grande Aracri ma io sta cosca non l’ho mai vista. Con queste persone non ho mai avuto a che fare». Nonostante una condanna in appello a 12 anni e 8 mesi per associazione mafiosa, Antonio Genesio Mangone non digerisce bene questa accusa che lo vedrebbe tra i quadri del clan cutrese in Veneto. Originario di Cariati, si è trasferito al Nord quando aveva 20 anni, oggi ha 58 anni e di ‘ndrangheta sembra masticarne poco. Ieri ha chiaramente detto di non conoscere le doti di ‘ndrangheta – chiamava la Santa, «Santo». «Sono da 35 anni al Nord», ha ripetuto più volte, oggi, nel corso del processo Rinascita Scott che lo vede in veste di teste dell’accusa.
L’ultimo contatto con la ‘ndrangheta calabrese, Mangone dice di averlo avuto nel carcere di Siracusa dove ha condiviso la cella con Gianfranco Ferrante e Michelangelo Barbieri, imputati nel maxi processo contro le cosche vibonesi.
A marzo 2019 è stato posto ai domiciliari nel corso dell’operazione “Camaleonte” della Dda di Venezia. A ottobre finisce in carcere – racconta lui stesso – in seguito a una nuova ordinanza per delle accuse di estorsione. Da allora non è più uscito dallo stato di detenzione.
Il 17 dicembre 2020 dichiara di volere collaborare con la giustizia e parla coi magistrati veneziani. Racconta, rispondendo alle domande dell’avvocato Guido Contestabile, di avere fatto redigere 5/6 verbali e di avere fatto un percorso di collaborazione di circa otto mesi. Poi il percorso di collaborazione si è interrotto «per diverbi con la Procura». Un argomento, questo del suo mancato inserimento nello status di collaboratore, sul quale le difese hanno insistito parecchio. Dopo un lungo e serrato controesame per testare la credibilità del testimone – reso non agevole dall’eloquio non proprio forbito di Mangone, teste difficile da contenere sui binari delle domande – il 58enne ha spiegato che lui avrebbe voluto continuare a collaborare ma, a quanto pare, il motivo di intralcio con la Procura di Venezia è stato proprio l’argomento associazione mafiosa. «Io – ha detto Mangone – mi sono accusato di tutto quello che è successo ma se c’è mafia, c’è mafia per tutti quanti, anche per gli imprenditori del nord est», dice, e ci tiene a sottolineare: «Io fino a 54 anni ero incensurato».
L’uomo che oggi fa dichiarazioni accusatorie importanti contro l’imprenditore Gianfranco Ferrante, Michelangelo Barbieri, Salvatore Bonavota, l’imprenditore Antonino Delfino e l’avvocato Giancarlo Pittelli, è arrivato nel carcere di Siracusa il 21 luglio 2021, è rimasto in isolamento per un paio di giorni e poi è stato messo in una cella con altre due persone delle quali ricorda i nomi di battesimo: Angelo e Rocco. Dopo pochi giorni passa in cella con Ferrante e Barbieri. Il 10 novembre 2021 dichiara alla Dda di Catanzaro di avere subito, un paio di mesi prima, un pestaggio in cella prima da Barbieri e dopo da Ferrante. Finisce in infermeria, denuncia il fatto, viene trasferito nella sezione accettazione e il 13 novembre 2021 lascia Siracusa. Ma prima denuncia anche il fatto che i detenuti utilizzavano cellulari in carcere. E tra questi anche Ferrante e Barbieri. Con la distrettuale di Catanzaro parla di quella parentesi di pochi mesi in cella coi due calabresi, dei dialoghi che ha ascoltato fino alla sua aggressione, avvenuta, dice, perché forse sono venuti fuori i suoi trascorsi di collaborazione.
Mangone dice che non sa chi fosse Pittelli, del quale in cella si parlava molto, soprattutto da parte di Ferrante. Dice di averlo visto solo una volta in televisione prima dell’arresto perché era stato parlamentare. Racconta di avere sentito che «Pittelli faceva favori a chi era nel suo ambito. Questo ho sentito e questo riferisco». Ma nello specifico Mangone non entra mai. Persone, circostanze, particolari non ne riferisce. Non sa a chi Pittelli avrebbe fatto i favori con le banche. Ricorda di avere sentito che aveva trovato lavoro a uno dei Mancuso in ambito sanitario. Racconta di avere sentito i compagni di cella dire «speriamo che viene scarcerato che ci può dare una mano» e che «anche dai domiciliari poteva dare una mano. Poteva contattare persone dai domiciliari». Ma le informazioni si fermano senza entrare nel dettaglio. Ricorda che avrebbe aiutato la figlia di Ferrante a entrare nel mondo della moda a Milano.
«Questo ho sentito e questo riferisco», ripete e dice anche più volte: «Io dico la verità».
L’avvocato Contestabile chiede se assuma una terapia in carcere e questa domanda lo manda su tutte le furie: «Assolutamente no. Io sono come mi vedete».
Dice di avere scritto di sua iniziativa alla Procura di Catanzaro per essere sentito.
La difesa presente in aula – gli avvocati Guido Contestabile, Salvatore Staiano e Francesco Muzzopappa – premette che produrrà, appena ne verrà in possesso, la sentenza di secondo grado che lo condanna a 12 anni e nella quale viene spiegato perché non è stato ammesso come collaboratore di giustizia. Staiano inoltre annuncia: «Chiederemo la trasmissione degli atti in Procura per le valutazioni del caso».
Al pm Annamaria Frustaci, Mangone racconta di avere sentito quei dialoghi in carcere prima di essere malmenato. Non aveva parlato con nessuno dei suoi trascorsi come collaboratore e non sa se qualcuno poteva averlo saputo e avere sparso la voce. Ha denunciato il pestaggio ma non sa se siano stati presi provvedimenti disciplinari. Da quando è stato arrestato non ha mai lasciato il carcere. (a.truzzolillo@corrierecal.it)
x
x