LAMEZIA TERME Il 5 settembre 2022 un padre e un figlio fanno una lunga video chiamata su whatsapp. Il padre, Antonio Guastalegname, 55 anni, collabora con la giustizia da gennaio, il figlio Domenico, 29 anni, parlerà per la prima volta con un magistrato della Dda di Catanzaro da lì a 10 giorni.
Il dialogo verte su argomenti che attirano l’attenzione della distrettuale di Nicola Gratteri e il 3 marzo i magistrati chiedono conto di quella conversazione nella quale emergono frasi di questo tenore: «E ma tu devi dire solo la verità Domenico, non dire cose in più se no rovini a me! Tu i cazzi miei non li sai», dice il padre al figlio.
Guastalegname spiega che il padre, con questa affermazione, intendeva dire «di non inventarmi cose inesistenti, anche per non metterlo in difficoltà nel suo percorso collaborativo. Per farvi comprendere il senso di questo passaggio, faccio presente che quando fui trasferito nel carcere di Ferrara, condiviso un periodo di detenzione con il collaboratore Nicola Rocco Maria Femia classe ’91 o ’92 (eravamo nella stessa cella) il quale mi ha consigliato di intraprende il percorso collaborativo senza esitazioni e di non inventare fatti o circostanze inesistenti anche perché sarebbero stati effettuati dall’Autorità Giudiziaria dei riscontri sulle mie propalazioni. Questo stesso concetto voleva esprimere anche mio padre nel corso di questo colloquio: non riferire all’autorità giudiziaria cose diverse od ulteriori rispetto alle mie effettive conoscenze, perché altrimenti avrei compromesso non solo il mio percorso, ma anche il suo». Su questo argomento il collaboratore è stato sentito anche nel corso del processo Rinascita Scott dal sostituto procuratore Annamaria Frustaci. Domenico Guastalegname ha raccontato di essere arrivato nel carcere di Ferrara a gennaio 2022 nella sezione dove si trovavano i congiunti dei collaboratori di giustizia. Il primo colloquio col padre – dopo che quest’ultimo aveva terminato l’isolamento dei 180 giorni – ce l’ha a luglio 2022. All’epoca non aveva ancora intenzione di collaborare.
Nel corso della lunga videochiamata di settembre col padre si parla del telefono a forma di orologio che era stato introdotto nel carcere. Antonio Guastalegname dice al figlio di raccontarlo (al Tribunale), poi fanno riferimento a un soggetto che gli aveva fregato il telefono che loro utilizzavano per telefonare (dall’interno del carcere). Oltre ai telefonini nel carcere entravano anche armi. «E poi cosa entrava pure? Ti ricordi che entrava pure “quella” (fa il segno con la mano di una pistola)», dice il padre.
«Sì, una “sei”», risponde il figlio.
Sentito su questo scambio di frasi, Domenico Guastalegname ricorda di avere ceduto, nel carcere di Vercelli (quando né lui né il padre erano collaboratori) ad alcune persone (in cui nomi sono omissati) «un micro-telefono, di quelli prodotti in Cina, a forma di orologio da polso, munito proprio di cinturino, al prezzo di 450 euro». Il collaboratore racconta di avere dato incarico a suo cugino di recuperare il denaro «presso la comunità Rom cui appartenevano» gli acquirenti e di portare il ricavato a sua moglie.
I due fratelli rom però rompono il microtelefono «e ci chiedono quindi un altro cellulare, ma noi non eravamo in grado di fornirglielo perché ne avevamo soltanto per noi». Guastalegname spiega che era difficile fare entrare i telefonini e «quelli che avevamo spesso si rompevano in conseguenza del fatto che venivano nascosti sotto al water. I due fratelli rom chiedono allora in prestito il cellulare a un altro detenuto che glielo dà premunendosi di togliere la sua scheda perché comunque i rom avevano la loro.
A questo punto i due fratelli mettono in atto il proprio piano per fregarsi il telefonino: prima nascondono il cellulare nel proprio corpo e poi vanno dalla sorveglianza a spifferare che giravano telefonini in carcere. Si scatena una vasta perquisizione. I due fratelli raccontano al proprietario del cellulare che erano stati costretti a buttare il suo cellulare per non incappare in qualche guaio. Ma il proprietario (tutti i nomi sono omissati per via di indagini in corso) non ci crede e, convinto che il rom avesse il suo telefono dentro di se, lo voleva costringere a defecare dentro un secchio davanti a tutti. Si scatena una lite che portò al trasferimento dei due fratelli rom in un’altra sezione del carcere.
E secondo i detenuti dell’altra sezione, racconta Guastalegname, i due rom erano stati visti utilizzare un telefonino dello stesso modello e colore di quello che gli era stato prestato.
Su questa vicenda è stata aperta un’inchiesta. Domenico Guastalegname dice che a fare entrare i cellulari in carcere era un detenuto che lavorava all’esterno del muro di cinta. Padre e figlio Guastalegname avevano ricevuto l’avviso di conclusione indagini di questa vicenda e stavano commentando proprio questo fatto.
Un altro soggetto, un albanese, «ristretto nella quarta sezione il quale si occupava di far entrare nel carcere di Vercelli materiale non consentito, ovvero armi, droga, liquori (Jack Daniels) e telefoni». Questo detenuto «ha fatto trovare degli arnesi, di cui non saprei riferire nel dettaglio la tipologia, chc sono stati poi utilizzati da (omissis) e suo cugino di cui non so il cognome ma che conosco bene) per evadere dall’istituto penitenziario il 31 dicembre del 2021».
Per quanto riguarda, poi, la pistola introdotta in carcere, Domenico Guastalegname racconta che «questa è stata introdotta dall’esterno del carcere tramite lancio…». L’arma è stata portata poi nella quarta sezione dove hanno tentato di venderla al padre del giovane collaboratore «che però l’ha rifiutata, ed è stata infine smontata ed occultata. Non saprei riferire altro su quest’arma». (a.truzzolillo@corrierecal.it)
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