Roberto Murolo cantava: «Guarda stu mare ca ci infonne ’e paure sta cercanne e ce mbara’». A proposito del ponte sullo Stretto, oggi potrebbe essere un monito per il ministro Matteo Salvini o per chi ritiene che l’opera non si possa o non si debba fare.
In una lezione sulle oscure profondità del mare, Franco Battiato, da isolano coinvolto, avrebbe nel merito concluso: «Canali simili ad orbite celesti. Il suo re Atlante conosceva la dottrina della sfera, gli astri, la geometria, la cabala e l’alchimia».
Riguardo a questo ponte, il cui destino ha finora evocato il beckettiano “Aspettando Godot” rivisto da Claudio Lolli, ci sarebbe un problema di correnti e di «disciplina della terra», per riprendere un titolo di Ivano Fossati, nella fattispecie la geologia, diventata popolare grazie ai programmi televisivi di Mario Tozzi.
Salvini ha assicurato che il ponte – finora somigliante al noumeno platonico e a quello kantiano – creerà tantissimi posti di lavoro e le mafie saranno tenute a distanza. Insomma, secondo il ministro, per citare un verso di Zucchero, «impareremo a camminare», a dispetto dello scetticismo generale sul domani della Calabria e degli spot della politica, che Battiato avrebbe così descritto: «Di tanto in tanto un grido copriva le distanze e l’aria delle cose diventava irreale».
In replica, Vasco Rossi avrebbe commentato: «Voglio trovare un senso a questa condizione, anche se questa condizione un senso non ce l’ha». E, col suo realismo profetico, il cantautore siciliano avrebbe risposto: «Sul ponte sventola bandiera bianca». Dal canto suo, Giorgio Gaber avrebbe ammonito: «L’acqua che passa, l’acqua che scorre dentro quel buio, oltre quel buio fa molto freddo, è quasi inverno, sto sopra il ponte in un inferno». Antonello Venditti, che pure non fu tenero con i calabresi, prendendone le parti, avrebbe osservato: «A noi che siamo sempre soli, nel buio della notte, occhi azzurri per vedere».
Al momento, il dibattito sul ponte di Messina appare poco attraente per la comunità siciliana e per quella calabrese, costrette ad affrontare ogni giorno gli effetti della crisi internazionale ed economica in contesti locali già segnati dalle mafie ufficiali, spesso dalle contiguità dei poteri costituiti. Perciò, siciliani e calabresi non potrebbero discutere dell’opera in questione come, per dirla alla Adriano Celentano, «un grande ponte tra il futuro ed amarcord», né avrebbero l’animo per cogliere sul punto «la cumbia, la cumbia di chi cambia».
Da «città di mare», Messina e Villa San Giovanni sarebbero, per Eugenio Bennato, «i punti di incontro di mille avventure, di lingue diverse, di facce scure, di gente che passa e si ferma a guardare».
Tuttavia, nell’incertezza del futuro, appeso agli umori dei potenti della Terra, che potrebbero provocare una nuova guerra mondiale, c’è il rischio che del ponte sullo Stretto si ritorni a parlare tra qualche anno. Sarebbero i corsi e ricorsi della storia, teorizzati da Giambattista Vico. E allora Paolo Conte, l’avvocato del jazz, descriverebbe la scena in questi termini: «E ricomincerà come da un rendez-vous. Scendo giù a prendermi un caffè, scusami un attimo. Passa una mano qui, così, sopra i miei lividi. Ma come piove bene sugli impermeabili e non sull’anima».
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