REGGIO CALABRIA In un’epoca non troppo lontana Reggio Calabria ha rischiato una nuova guerra di mafia. La pace sancita, in nome degli affari, dopo la mattanza degli anni 90 ha traballato. Per lo stesso motivo che aveva portato a sotterrare l’ascia di guerra: i soldi. E, in qualche modo, l’onore. La sentenza “Epicentro” entra nei rapporti complicati tra i vertici del clan De Stefano e gli “scissionisti” Molinetti. Protagonista è la frustrazione di Gino detto “La Bestia”, che vuole i propri spazi e non accetta la gestione economica del clan. Pochi denari per la sua famiglia, passaggi a vuoto nella riscossione del pizzo. E poco rispetto per anni di fedeltà nei confronti del gotha della ‘ndrangheta reggina. Lui sbarca il lunario a Reggio Calabria, “Giorgino” De Stefano fa la bella vita a Milano e appare accoppiato ad aspiranti starlette sulle riviste di gossip. Coltiva affari di serie A mentre Gino resta in panchina. «Ma come mai che in quattro mesi ci siamo combinati come nemici», si chiede il fratello Alfonso in una serie di conversazioni che, nelle motivazioni della sentenza di primo grado del processo svolto con il rito abbreviato, fa da legenda dei malumori all’interno della cosca. Lo scoccare dell’inchiesta “Malefix” toglierà ogni dubbio ai Molinetti: gli arresti evitano una possibile guerra ma le carte ne raccontano i presupposti. E la delusione dei due fratelli.
Il tempo ne ha scolorito i meriti di «giovanotti di ‘ndrina» agli occhi dei De Stefano. I galloni acquisiti durante la guerra di mafia appaiono sbiaditi. I nuovi vertici tendono «a dimenticare quanto accaduto, tanto che perfino Carmine De Stefano ormai interloquiva in maniera pacifica con la cosca Condello», nemica per antonomasia. I due mondi mafiosi convivono ma il nuovo ha preso il sopravvento. Luigi Molinetti sottolinea che «stanno prendendo le distanze da questa storia, quella storia è stata un po’ dimenticata da tutti». È, soprattutto Orazio De Stefano, alias “Lucio Dalla”, «che – sintetizza il giudice – non aveva saputo gestire adeguatamente i rapporti tra le cosche, né vendicare l’omicidio del fratello» Paolo, ucciso nel 1985 nell’agguato che avrebbe dato inizio a una faida finita sei anni e centinaia di morti più tardi.
«Di questa storia… del paese – dice Gino al fratello – non è rimasto nulla… i ragazzi non sanno nulla». «È passato pure tanto tempo – risponde Alfonso Molinetti –, se ne fottono questi qua». Trentasette anni sono tanti ma, prosegue “La Bestia”, «ci sono dei passaggi… dei meriti pure… che potremmo avere anche noi ragazzi voglio dire… che mai nessuno ha evidenziato».
Gino torna proprio all’omicidio di Paolo De Stefano il 13 ottobre 1985: «Pochi sanno, per dirti, che… perché per il primo fatto che è successo… al Mercatello lo sa però Giorgio… questo non lo dice, lo sanno chi è stato?». Ai Molinetti non è mai piaciuta la (mancata) reazione di Orazio De Stefano a quel delitto: «Quando è morto suo fratello… doveva andare lui personalmente». Orazio De Stefano, a dire dei due fratelli, potrebbe essere una delle pietre d’inciampo nella ricerca di un accordo con la cosca storia. I Molinetti avrebbero «difeso il sangue» dei De Stefano per poi vedersi trascurati. Questioni di onore che spingono le cosche sull’orlo di uno scontro. È Alfonso Molinetti a intervenire in maniera incisiva per evitarlo. Il 13 novembre 2019, in una conversazione con suo figlio Salvatore Giuseppe, detta istruzioni chiare. Gli ordina «di riferire al fratello Luigi e ai nipoti che lui “vuole bene e lo rispetta a [Carmine De Stefano] e a suo fratello Peppe, fìno a che il signore lo lascia”, raccomandando al figlio di ripetere questa frase più volte, così che il fratello capisca». Compie così, sottolinea il gup, «una scelta di campo chiarissima e irretrattabile che acclarava definitivamente al fratello che, in caso di definitiva rottura con i De Stefano, egli si sarebbe schierato dalla paiie di questi ultimi. All’uso del bastone, tuttavia, seguiva il ricorso alla carota, infatti Molinetti ribadiva che, in caso di bisogno, si sarebbe occupato egli stesso di risolvere i problemi insorti con Carmine De Stefano».
Alfonso Molinetti si mostra poi preoccupato «per la diffusione che aveva raggiunto la voce del dissidio tra le due famiglie negli ambienti criminali in quanto dimostra come, pur in regime di semilibertà, egli incontrasse associati che gli chiedevano conto di quanto stava accadendo». Cerca di derubricare le voci sui contrasti a chiacchiericcio per «stoppare il pericoloso passaparola determinatosi a causa della condotta del fratello preservando l’apparenza di unità all’interno del proprio gruppo familiare».
«Punto di riferimento di mio padre sono i De Stefano, tutti e due», è l’istruzione tramandata al figlio. «Con chi si è incontrato mio padre nel carcere – dice – con “cristiani” che hanno un nome, che hanno una storia, di famiglie, storie di famiglie, “cristiani boni”, mio padre conta che non gli ha mai parlato di Tegano, mio padre, punti di riferimento, i figli di Paolo De Stefano, tutt’e due». Altra conversazione ancora più chiara: «Mio padre gli dice che rispetta a Carmine De Stefano e a Peppe i figli di Paolo De Stefano, sempre! E comunque rimarrà un “undi esti esti” fino a che campa». Una scelta di campo necessaria per evitare una nuova guerra. (p.petrasso@corrierecal.it)
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