CATANZARO Ercole D’Alessandro, 68 anni, imputato nel processo “Basso Profilo” è stato sentito in aula a Catanzaro dall’accusa e dalla difesa. L’ex finanziere è un fiume in piena, si lascia andare a considerazioni e aneddoti, esonda e travolge (forse senza pensare troppo alle conseguenze di quello che dice). Si inerpica in racconti che non riguardano prettamente i fatti oggetto delle accuse nei suoi confronti. Giudica, critica, valuta, sembra essere più portato a puntare il dito che a difendere se stesso. Le indagini sul Sant’Anna? «Si sono limitati al discorso Utic. Tutti i soldi sono in Inghilterra». Il suoi superiori? Su uno in particolare: «Non era pratico del servizio operativo. Aveva una sorta di invidia nei miei confronti perché io ero molto ricercato e conosciuto. Mi metteva sempre i bastoni tra le ruote». Sul suo passato da investigatore all’antidroga: «Quando all’inizio dicevamo che la cocaina arrivava al porto di Gioia Tauro si sono messi a ridere. Abbiamo dimostrato tante cose». Il passato in Sicilia: «Il dottore Falcone ci diceva sempre di scambiarci le notizie, solo così si risolvono i casi». Sulla sua buona fede: «Sono stato io l’inventore del trojan e parlavo tranquillamente». L’apparato di racconti, giudizi e considerazioni che fa da cornice all’esame e al controesame di Ercole D’Alessandro è denso e ricco di aneddoti. L’imputato, originario di Fuscaldo, ex luogotenente della Guardia di finanza, già in servizio al Nucleo di polizia economico finanziario, Gico – sezione Goa (gruppo operativo antidroga) di Catanzaro, è implicato nel processo “Basso Profilo” con l’accusa di associazione per delinquere, corruzione in atti giudiziari, rivelazione e utilizzazione di segreti d’ufficio, traffico di influenze illecite, accesso abusivo a un sistema informatico. In taluni casi i reati sono aggravati dal metodo mafioso. Secondo le indagini, D’Alessandro sarebbe la figura di raccordo tra la politica e il comitato d’affari guidato da Antonio Gallo, pronto ad aprire punti vendita di articoli di antinfortunistica in Albania grazie anche alle importanti conoscenze “ministeriali” del finanziere. D’Alessandro è considerato anche “veicolo” di informazioni riservate ad alcuni degli indagati, riguardo alle attività investigative in corso a loro carico.
Ercole D’Alessandro racconta di avere conosciuto il perno di tutta l’indagine, Antonio Gallo, 43 anni, di Sellia Marina (individuato come imprenditore di riferimento dei clan del Crotonese tramite i quali gestiva «in regime di sostanziale monopolio la fornitura di prodotti antinfortunistici alle imprese che eseguivano appalti privati nei territori del settore jonico catanzarese»), tramite l’ex consigliere comunale di Catanzaro Tommaso Brutto, 60 anni, anche lui imputato in questo procedimento insieme al figlio Saverio, 34 anni. Brutto, dice D’Alessandro, denunciava questioni che riguardavano il Comune di Catanzaro. Ed è Brutto che avrebbe proposto al finanziere di fare affari in Albania. D’Alessandro racconta che il 13 maggio 2017 avviene una lite in casa di suo figlio Luciano, 47 anni, – col quale il finanziere spiega di avere avuto un rapporto sempre complicato – che viene arrestato per maltrattamenti alla compagna. Su consiglio dell’avvocato, D’Alessandro pensa di mandare via dalla Calabria il figlio e gli viene in mente la proposta di Brutto.
D’Alessandro racconta di essersi informato da più persone su Gallo, di averne tratto notizie positive e di non avere indagato oltre. L’imputato afferma anche di avere «tutti i ritagli dei giornali» e di non avere mai letto il nome di Gallo quale indagato nell’inchiesta Borderland contro la cosca Trapasso. Il 26 aprile 2017 D’Alessandro incontra Tommaso Brutto che dice che il maresciallo Mari della Guardia di finanza sta perseguitando Gallo. Visto che un finanziere stava «perseguitando» Gallo «non le è balzato in mente che c’era qualcosa che non andava?», chiede il pm Paolo Sirleo. D’Alessandro dice di avere saputo che non si trattava di reati di mafia ma fiscali anche se ammette: «È stata una mia leggerezza ma mi sono fidato di persone informate» e aggiunge che a lui gli avevano parlato di Gallo come vittima di attentati.
Dell’affare coi Brutto dice che il figlio «è stato preso per i fondelli» e lui ci ha «rimesso un sacco di soldi perché Luciano stava in Albania e non veniva pagato da Gallo».
I rapporti coi Brutto e con Gallo avrebbero cominciato a incrinarsi a settembre 2017, quando D’Alessandro va in Albania. La versione dell’imputato è che Gallo dà la colpa a Tommaso Brutto di avere fatto entrare Luciano D’Alessandro nell’affare mentre l’ex consigliere comunale lo avrebbe fatto per far credere a Gallo che, coinvolgendo il figlio, il finanziere gli avrebbe risolto i problemi con Mari. Rispondendo ai quesiti del presidente del collegio giudicante, Beatrice Fogari, Ercole D’Alessandro racconta che i rapporti si erano incrinati perché il figlio era stati tagliato fuori dalla società. E anche perché, quando all’aeroporto di Tirana arrivarono due suoi amici, Luciano aveva chiesto a Brutto e Gallo di poter prendere l’auto per accompagnare i viaggiatori e gli era stato negato.
Tra l’altro, il finanziere viene a sapere dall’avvocato Claudio Larussa, che aveva difeso Gallo in cause davanti al Tar, che Gallo aveva dei precedenti penali nell’inchiesta antimafia Borderland. Larussa gli porta tutti gli incartamenti. Nonostante questo, i rapporti tra Gallo e D’Alessandro permangono. Il finanziere spiega di avere continuato a fare l’amico perché «io volevo cogliere l’occasione per lavorarmelo», rappresentando il fatto che era scattato l’investigatore che alberga in lui.
«Volevo portare notizie concrete al procuratore Gratteri che si era appena insediato», dice. Poi specifica che con Gratteri di questo non ha mai parlato. E al presidente Fogari racconta che aveva continuato a mantenere i rapporti con Gallo «perché volevo acquisire informazioni sulla criminalità organizzata nei villaggi turistici della zona di Sellia Marina».
Eppure, gli fa notare il pm Sirleo, D’Alessandro non aveva alcun titolo per indagare sulla criminalità di Sellia visto che stava all’antidroga su Reggio Calabria. La tesi dell’imputato è che comunque il Gico di Catanzaro ha competenza su Sellia e lui voleva indagare.
Di indagini sulle quali non aveva titolo (perché non attinenti con l’antidroga) D’Alessandro ne snocciola parecchie.
A partire da quelle sul Sant’Anna, clinica privata di Catanzaro nella quale lavorava la compagna Odeta Hasaj, anche lei imputata con l’accusa di accesso abusivo ad un sistema informatico o telematico.
Secondo il finanziere, sul Sant’Anna aleggiavano le cosche Trapasso e Bonavota. Dice di aver seguito il flusso di denaro e che questo portava in Inghilterra. Che lui parlava con uno dei proprietari della clinica che, ad un certo punto, aveva preso ad aprirsi con il finanziere.
Dice anche di avere fornito ai suoi superiori «un pacchetto completo. Si sono bloccati, non si muoveva nessuno. Si sono limitati al discorso Utic».
D’Alessandro racconta anche di avere avuto notizie sicure, grazie a una fonte, sulla rapina milionaria alla Sicurtransport dopo cinque giorni dal fatto. Il finanziere spiega di avere riferito tutto a Gratteri che lo avrebbe messo in contatto con il capo della Squadra Mobile, titolare delle indagini, Nino De Santis. «Dopo un anno non succedeva nulla», dice l’imputato, fino a quando non gira voce che «la zingara», Annamaria Cerminara, stava cominciando a collaborare. «Quando li hanno arrestati sono stato contento che erano i soggetti che avevo segnalato».
L’accusa, però, ha un’altra versione, ossia che Ercole D’Alessandro (che poi ha lavorato anche per la Sicurtransport) abbia acquisito informazioni sulla rapina da un poliziotto, Santo Mancuso, mentre le indagini erano ancora in corso, macchiandosi del delitto di rivelazione e utilizzazione di segreti d’ufficio.
Nel corso dell’esame Ercole D’Alessandro, più volte, ripete che voleva riferire circa le risultanze delle proprie indagini direttamente a Gratteri. Le domande dei suoi difensori, gli avvocati Valerio Murgano e Alfredo Gaito, portano l’imputato a specificare che lui riferiva prima a suoi superiori e dopo al procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri. Nonostante questo, diverse frasi pronunciate dal finanziere durante l’esame hanno spinto il giudice Fogari a chiedere lumi sul rapporto tra D’Alessandro e uno dei suoi superiori.
D’Alessandro, senza reticenze, afferma che «aveva una sorta di invidia nei miei confronti perché io ero molto ricercato e conosciuto. Mi metteva sempre i bastoni tra le ruote».
Per quanto riguarda l’accusa di accesso abusivo ad un sistema informatico o telematico, D’Alessandro, su richiesta della compagna Hasaj, avrebbe illecitamente effettuato interrogazioni alle banche dati in uso alla Finanza per verificare la presenza di informazioni di polizia su diversi soggetti. Nel corso dell’udienza la Hasaj ha negato di avere fatto simili richieste e di essersi adirata quando ha scoperto l’agire del compagno. D’Alessandro ha affermato di non avere mai dato informazioni alla compagna, al contrario, «era lei che dava informazioni a me». (a.truzzolillo@corrierecal.it)
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