REGGIO CALABRIA «Perché non è un imprenditore che rischia di parlare, è uno della malavita, con la nostra mentalità, di Platì». Domenico “Micu McDonald” Agresta, ex padrino pentito, tratteggia così agli inquirenti la figura di Gianfranco Violi, imprenditore che riciclava il denaro degli affari illeciti dei clan emigrati nel profondo Nord.
L’inchiesta “Platinum Dia” segna l’inizio dei guai giudiziari per Violi. La parabola continua con una condanna in primo grado a cinque anni. In mezzo c’è la fortuna imprenditoriale dell’uomo originario di Platì, che il giudice definisce un’ascesa «ingiustificata e tentacolare, con interessi in svariati comuni ed enti piemontesi anche nella pubblica amministrazione».
È La Stampa, nelle sue pagine torinesi, a raccontare come Violi sia riuscito a costruire un piccolo impero pur essendo «uomo di cerniera tra il mondo economico e la potente enclave mafiosa degli Agresta». Una notazione non da poco, in tempi di Pnrr e di polemiche furenti sul nuovo codice degli appalti. L’imprenditore originario di Platì, formalmente incensurato, ha trovato per anni il modo di fare business e creare un reticolo di società con introiti milionari negli appalti pubblici nonostante le proprie relazioni pericolose: un monito e un campanello d’allarme. Sono le motivazioni della sentenza a raccontare come Violi avesse ruoli in una ventina di società. Un network di partecipazioni in cui «rilevava – La Stampa riporta le parole del giudice – una parte o la totalità dei pacchetti azionari di società di costruzioni attive anche nell’ambito dei lavori pubblici, divenendo socio o proprietario delle aziende per cui prima risultava dipendente». C’era qualche “buco” nel sistema: con redditi di 1.230 euro l’anno Violi rilevava attività per 90mila euro. E poi ci sono le società con il figlio del presunto capo della ‘ndrangheta in Piemonte a metterlo nei guai.
Con due ditte, Tecnowater e Saes, l’imprenditore vince una serie di commesse maxi che gli permettono di entrare nel “giro” dei lavori per la pubblica amministrazione. Rifiuti, soprattutto, grazie ai quali “entra” in rapporti con consorzi, Comuni di Torino e Nichelino, Amiat e con l’Agenzia per lo svolgimento dei Giochi olimpici (tutti estranei all’indagine).
È Violi stesso a spiegare la logica secondo la quale insegue questi lavori, anche se alcuni non sono di importi considerevoli. «Non devi guardare quello perché sono lavoretti – dice – ma l’importante è stare dentro Amiat che poi l’anno prossimo raddoppiamo come abbiamo fatto l’altra volta: da 200mila passiamo a 400 e poi a 800mila». La scalata dell’imprenditore continua in tutto il Piemonte. È incensurato. Anche se di lui Micu McDonald dice che «è uno della malavita».
La sua storia è esemplare, racconta sempre a La Stampa il sociologo Rocco Sciarrone, «delle dinamiche che assume la ‘ndrangheta in aree non tradizionali in cui rispetto alla logica della struttura criminale che pure c’è, emerge una forte curvatura sulle logiche economiche e affaristiche. È una vicenda che dovrebbe far riflettere anche sulle recenti questioni legate al Codice degli appalti che ci mostra come i rilievi di Anac sull’aumentato ricorso agli affidamenti diretti siano fondati: da un lato si semplifica su un versante, ma dall’altro si rinuncia al controllo di legalità, lasciando campo aperto alla criminalità mafiosa e a quella dei colletti bianchi». Violi ha sbaragliato la concorrenza «senza violenza» e grazie «a una grande liquidità» con «proventi che derivano da traffici illeciti». A chi, però, dirà che essendo Violi incensurato nulla si poteva sapere, Sciarrone risponde: «Vero solo in parte. Il suo nome era emerso in diverse indagini a partire proprio dagli anni in cui aveva raggiunto il picco, poi mantenuto, dell’ascesa imprenditoriale».
La Stampa racconta anche questo dettaglio. E spiega che l’imprenditore incensurato condannato per mafia è citato 173 volte negli atti giudiziari della Dda di Torino. Dal 2010, con le operazioni “Minotauro”, Azzardo”, “Carne di cane”, “San Michele”, Gianfranco Violi compare nelle inchieste antimafia. «In quegli stessi atti – scrive il giudice che lo ha condannato – Violi già emergeva all’attenzione degli inquirenti come soggetto con rapporti e cointeressenze, anche finanziarie, con esponenti apicali della consorteria piemontese quali Bruno Iaria, capo della locale di Cuorgnè (condannato a 13 anni), e Antonio Agresta». Rapporti che non hanno frenato la scalata economica dell’imprenditore, capace di mettersi in relazione con il potere politico locale nonostante un pedigree familiare che affonda nel terreno delle cosche della Locride. Un solo stop: quello arrivato dalla prefettura di Torino nel 2016 con un’interdittiva antimafia e un diniego all’iscrizione alla “White list” per i legami con le famiglie Iaria e Agresta. (redazione@corrierecal.it)
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