REGGIO CALABRIA Una parola, «’ndrangheta», che rimanda a un immaginario completamente maschile. Un termine che deriva dal greco: “andrós” e “agathós” insieme formano il significato di «uomo valente». E che da tre uomini (Osso, Mastrosso e Carcagnosso) secondo la leggenda, fu fondata insieme a Cosa Nostra e alla Camorra. Una narrazione, quella del mondo dei cosiddetti “uomini d’onore”, fatto da uomini e in cui a operare sarebbero solo uomini, che viene tuttavia smentita dalle decine di inchieste che hanno dimostrato come le donne siano tutto fuorché che entità ai margini e subordinate. Inchieste, ma anche storie di donne boss o che accanto ai boss si sono ritagliate spazi importanti, anche ai vertici. Come nel caso di Aurora Spanò, condannata a 18 anni e sei mesi per il ruolo apicale ricoperto all’interno del clan Bellocco di San Ferdinando. Dall’altra parte della barricata, invece, quelle donne che si sono ribellate alla violenza e alla sopraffazione dei clan, decidendo di intraprendere una strada diversa.
A indagare sul tema è un podcast, “Le onorate. Donne dentro e contro la ’ndrangheta”, del Post, prodotto in collaborazione con Disney+ in occasione dell’uscita della serie originale The Good Mothers, e realizzato dal giornalista Stefano Nazzi e Anna Sergi, docente in criminologia all’Università dell’Essex.
Sebbene di questo universo fatto di giuramenti, ruoli ben definiti e strategie criminali si parli quasi sempre in termini maschili, «la ‘ndrangheta – spiega Anna Sergi – non esisterebbe senza il femminile». È “Mammasantissima” il termine utilizzato per definire il capobastone, il reggente, il capo supremo. Ed è presso il santuario della “mamma di San Luca”, “la mamma dell’Aspromonte”, la Madonna di Polsi, «il posto dove sarebbero state trovate le dodici tavole che dettano i comportamenti degli ‘ndranghetisti». Per tale ragione a San Luca viene riconosciuto un ruolo apicale in Aspromonte. «San Luca fa da Mecca per tutti i clan», spiega Sergi.
Ma “la mamma di San Luca” non è l’unica, «ha creato un modello per altre famiglie che hanno creato mamme territoriali. Nel processo Rinascita Scott si parla ad esempio della mamma del Vibonese, che è a Limbadi. Avere la mamma significa avere un “Crimine”, la struttura principale della ‘ndrangheta, riconosciuta in seno a una specifica famiglia».
Rimaste ufficialmente ai margini, le donne in quanto mogli e mamme, hanno tuttavia sempre avuto un valore fondamentale in un contesto in cui la famiglia, specialmente nei clan calabresi, è il fulcro di tutta l’organizzazione. Nella ‘ndrangheta, più che nelle altre organizzazioni criminali, i rapporti familiari, e quindi si presuppone di totale fiducia, hanno rischiato di renderla inespugnabile. «Le donne – spiega ancora Sergi – ufficialmente non si affiliano alla ‘ndrangheta, sono conosciute come sorelle d’onore, però senza di loro non esisterebbe la ‘ndrangheta proprio perché l’onore ha un valore fondamentale, è il cuore del potere ‘ndranghetista e rende morboso l’attaccamento alle donne della famiglia. La ‘ndrangheta è femminile proprio in quanto è famiglia, il suo contesto è femminile e la sua connessione con il contesto è femminile». Le donne sono dunque «colonne portanti». Ma non solo in quanto curano l’educazione dei figli e sostengono le azioni criminali di mariti, padri, fratelli.
Sempre più spesso si assiste all’ascesa di donne boss, come nel caso sopracitato di Aurora Spanò, con il ruolo apicale ricoperto all’interno del clan Bellocco di San Ferdinando, ma anche di donne la cui morte ha provocato l’innesco di sanguinose azioni. La faida di San Luca, portata avanti con l’uccisione di Maria Strangio il 25 dicembre 2006, ha portato alla strage di Duisburg in un attentato in cui furono uccise sei persone del clan Pelle-Vottari il 15 agosto 2007. Una vicenda che ha visto il coinvolgimento di altre donne, «Teresa e Angela Strangio – spiega Anna Sergi – sono state anche condannate per i loro ruoli dirigenziali nella famiglia».
Emblematico poi il caso di Anna Rosalba Lazzaro, la madre di Maria Concetta Cacciola, condannata insieme ad altre persone per l’omicidio della figlia.
Maria Concetta era figlia di Michele Cacciola, il cognato del boss di Rosarno Gregorio Bellocco. La donna muore nel 2011 dopo aver ingerito una grossa quantità di acido muriatico. Cugina di Giuseppina Pesce – anche lei si ribellerà e diventerà testimone di giustizia – Maria Concetta Cacciola, sofferente per il contesto familiare soffocante in cui vive decide di allontanarsi dalla famiglia e di intraprendere il percorso come collaboratrice di giustizia. Tornerà a casa convinta dai familiari che faranno leva sul rapporto con i figli e qui troverà la morte. Analoga la storia di Tita Buccafusca, moglie di Pantaleone Mancuso. Morirà divorata anche lei dall’acido muriatico che era stata costretta ad ingerire dai suoi assassini, la sua famiglia, a un mese esatto dallo slancio che l’aveva portata a collaborare con gli investigatori. Con il figlio in braccio era entrata nella caserma dei carabinieri di Nicotera chiedendo di parlare con un magistrato. Stessa decisione e stessa sorte per Lea Garofalo, uccisa a Milano dal suo ex compagno Carlo Cosco dopo aver deciso di testimoniare sulle dinamiche di ‘ndrangheta del suo paese di origine, Petilia Policastro, nel crotonese. La verità su Cosco, condannato insieme ad altre persone per la morte di Lea Garofalo, verrà scoperta grazie alla testimonianza della figlia Denise. Donne uccise per aver deciso di parlare, che per amor proprio e per amore dei propri figli avevano deciso di allontanarsi da un contesto familiare fatto di costrizioni, sofferenze e malaffare. Desideravano semplicemente una vita diversa. (redazione@corrierecal.it)
x
x