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L’appello di Remuzzi a Schillaci e Occhiuto: «Una riflessione sulla difesa della sanità pubblica»

Le proposte dello scienziato: «Richiamare i medici calabresi all’estero, investire sui giovani e lavorare anche sabato e domenica»

Pubblicato il: 13/04/2023 – 13:01
di Emiliano Morrone
L’appello di Remuzzi a Schillaci e Occhiuto: «Una riflessione sulla difesa della sanità pubblica»

Un’attività scientifica sterminata e una lunga esperienza manageriale. Lo scienziato Giuseppe Remuzzi, tra gli italiani più citati al mondo nella ricerca scientifica, è un osservatore tra i più acuti nel campo della sanità. Assieme a lui, in Corriere Suem di oggi, ci dedichiamo a una intensa e approfondita analisi del sistema sanitario calabrese.

Professore, lo scorso 3 aprile è stato ridefinito il finanziamento delle Aziende sanitarie provinciali della Calabria per l’acquisto di prestazioni erogate dal privato accreditato nel triennio 2022-2024. Nello specifico, la somma disponibile è di 184 milioni di euro. Qual è il suo punto di vista sul rapporto tra sanità pubblica e sanità privata?
«Il nostro Paese, che dovrebbe avere un Servizio sanitario nazionale in teoria fra i migliori del mondo, ha accumulato grandi problemi in tanti anni. Primo, la sanità dovrebbe essere pubblica come la scuola, nel senso che dovrebbe essere egualmente disponibile per tutti i cittadini. È semplice: tutti devono avere il diritto, previsto dalla Costituzione, di essere curati gratuitamente e bene, perlomeno in rapporto ai cosiddetti Lea, cioè i Livelli essenziali di assistenza. Secondo, su sanità e scuola non ci dovrebbero essere differenze tra chi abita al Nord e chi abita al Sud. Il Servizio sanitario nazionale fu istituito sul principio dell’eguaglianza riguardo al diritto alla salute. L’Italia si basò sull’esempio inglese di 30 anni prima, che spiega benissimo perché il Servizio sanitario debba essere pubblico. Nel luglio del 1948, a Londra si disse: «Da domani avrete un Servizio sanitario nazionale che pagherete attraverso le tasse. Quindi, ciascuno di voi pagherà per tutti gli altri». Ciò, e questo è il concetto essenziale, tolse la preoccupazione dei soldi in caso di malattia. Fu un’espressione di straordinaria civiltà. Noi, 30 anni dopo, nel 1978 abbiamo istituito un Servizio sanitario che doveva avere le stesse caratteristiche: essere equo, solidale e universale, cioè essere per tutti i cittadini, indipendentemente dalle possibilità economiche, dal censo o da qualunque altro aspetto».

In seguito, però, è cresciuta la sanità privata.
«Vero. Nel Nord del nostro Paese, a partire da 30 anni fa, cioè dalle prime riforme varate in Lombardia, si è cominciato a erodere il Servizio sanitario nazionale, affidando sempre più attività al privato. Adesso il privato è arrivato al circa il 50 per cento delle attività sanitarie e ciò è profondamente sbagliato. Perché? Perché la sanità è l’unica attività in cui si deve tendere a ridurre il fatturato. È proprio ciò che fa il pubblico, essenzialmente attraverso la prevenzione delle malattie. Al contrario, il privato, per sua natura e anche giustamente, punta ad aumentare il fatturato; per esempio, con più protesi dell’anca, più chirurgia cardiaca, più sostituzioni valvolari. Tra l’altro, non possiamo dimenticare che questo è privato per modo di dire, perché è accreditato. Ora il cittadino paga due volte: per essere assistito dal Servizio sanitario nazionale e per essere assistito dal privato, che in gran parte prende i soldi ancora dal sistema pubblico».

Può chiarire la sua posizione ai nostri lettori?
«Guardi, io non sarei assolutamente contrario al privato, se fosse realmente tale, cioè uno va lì paga e si fa operare da chi vuole. Nel caso, paga l’interessato o paga la sua assicurazione o pagano i ricchi, che una volta venivano dalla Russia e adesso vengono dall’Arabia o dagli Emirati. Ma che sia un servizio sostenuto per il 90 per cento da soldi pubblici è un’aberrazione che non si può più accettare, anche perché il sistema ha contaminato addirittura gli ospedali pubblici con le stesse persone».

Qual è il suo auspicio?
«Il Servizio sanitario nazionale deve ritornare al centro degli interessi del governo. Ci sono stati governi di destra e di sinistra, ma nessuno si è occupato globalmente del Servizio sanitario nazionale. Non si tratta di fare piccole riforme. Ogni tanto qualcuno cambia qualcosa, ad esempio per consentire agli infermieri l’esercizio della professione privata. Ma non c’entra niente, non è una soluzione che ci risolve il problema. Noi dobbiamo avere un Servizio sanitario forte, che in parte lo è ancora. In proposito, io ho degli esempi incredibili. Nel mio ospedale, di recente sono stati eseguiti tre trapianti: di fegato, di pancreas e di reni a un paziente diabetico, con una possibilità di riuscita del 10 per cento. Il paziente adesso è a casa sua, sta bene e non ha pagato una lira. Questa è la grandiosità del nostro Servizio sanitario nazionale».

Il Servizio sanitario nazionale va difeso ma non è tra le priorità della politica?
«A noi sembra normale che un malato possa avere un trapianto di cuore o di fegato, oppure le cure più avanzate per il cancro, sempre senza spendere un euro. Tenete conto che in molte parti del mondo non è così. Avere un malato in famiglia vuol dire perdere tutto e indebitarsi. Il problema è che noi dovremmo essere gelosi del nostro Servizio sanitario, dovremmo parlarne, dovremmo far capire ai politici che il loro primo problema è il Servizio sanitario nazionale. Perché? Perché quando noi abbiamo perso la salute abbiamo perso tutto, inclusa la libertà. Noi siamo così attenti alla nostra libertà, fino al punto di dire che l’obbligo vaccinale la toglie, il che non è vero, tra l’altro. Ma non ci stiamo rendendo conto che stiamo perdiamo la libertà più importante, cioè quella di essere curati e di guarire quando siamo malati».

Professore, lei ha citato la Costituzione repubblicana, il cui articolo 3 afferma che tutti i cittadini sono uguali. Tuttavia, in Italia ci sono più Servizi sanitari e con differenze enormi tra di loro. Oggi si parla anche di autonomia differenziata, che rischia di aumentare le disparità esistenti tra le diverse regioni. È una prospettiva che la preoccupa?
«Sono estremamente preoccupato. Può essere regionale soltanto la gestione di alcuni aspetti della sanità. Mi riferisco alle nomine dei direttori degli ospedali, alle nomine dei primari, alle nomine di chi amministra la salute in un determinato territorio. È molto difficile pensare che da Roma si decida chi deve fare che cosa in Lombardia. Ma le linee generali di indirizzo non devono essere affidate alla Regione. Non può esserci una Regione che voglia fare qualcosa per i propri cittadini escludendo gli altri. Non sarebbe ammissibile e comunque sarebbe profondamente sbagliato. L’autonomia differenziata mi pare uno slogan che non si realizzerà mai, perché richiede l’unanimità in Conferenza Stato-Regioni. L’attuazione dell’autonomia differenziata è, in ambito sanitario, contraria allo spirito della Costituzione».

Già adesso esistono differenze molto profonde. Per esempio, regioni come la Calabria, addirittura commissariata per il Piano di rientro, vivono un’emigrazione sanitaria tremenda, che pesa moltissimo sulle singole famiglie. Lei si schierò pubblicamente a favore del rilancio della sanità calabrese. Poi che cosa è successo?
«Nel corso di una puntata del programma televisivo Piazza Pulita, avevo lanciato una proposta con un certo successivo livello di dibattito. Poi mi dissero che non si poteva andare avanti. Avevo parlato con tante persone. Dopo qualcuno mi ha detto che la Calabria va lasciata stare ed è meglio non toccarla, visto che lì esistono logiche del tutto diverse, incomprensibili. C’è un grosso problema in Calabria, anche se adesso lì è arrivato un tecnico (il riferimento è al commissario di Azienda Zero, Giuseppe Profiti, nda) con ampi poteri, che mi sembra anche bravo per quanto ha già fatto in Liguria e dunque potrebbe ottenere risultati concreti. Io avevo sollecitato l’impegno di tutto il Paese per fare della Calabria la capitale europea della salute. In Italia ci sono le competenze per raggiungere questo obiettivo. Ancora, ci sono calabresi molto bravi che stanno ovunque, per esempio a San Francisco, a Yale, a Oxford, a Cambridge. Io non capisco perché, dopo che hanno acquisito un livello professionale molto alto e nel loro campo sono riconosciuti tra i migliori del mondo, non decidano di tornare tutti insieme e di chiedere le condizioni ideali per operare nella loro terra d’origine».

Che cosa servirebbe al riguardo?
«Ci vogliono i soldi, che adesso ci sono. Ora è il momento in cui si può pensare di spenderli. Bisogna impegnarsi, ci vuole qualcuno che prenda la mia proposta sul serio e non la lasci cadere. Ad esempio, è stato stanziato un miliardo per recuperare le prestazioni accumulate durante la pandemia. Poi ci sono i fondi del Pnrr, che darebbero grandi opportunità ad una regione piccola come la Calabria, la quale dovrebbe avere tre grandi ospedali e poi case della salute, ospedali di comunità e tutte le strutture descritte in modo mirabile nel Piano nazionale di ripresa e resilienza, nello specifico nella Missione 6. È questione di incontrare persone che vogliano tornare in Calabria o persone che si vogliano formare per andare in Calabria a condurre questo esperimento straordinario. Serve soltanto impegno, buona volontà e snellimento delle procedure. Inoltre, bisogna avere il coraggio di affrontare le questioni di cui spesso non si può parlare».

«Sanità tornata indietro di 40 anni. Il Pnrr? Può aiutare, ma servono contenuti»

La provincia di Crotone conta 180mila abitanti. Lì, su 100 posti letto per la Chirurgia, 70 sono assegnati al privato. Gli esempi della prevalenza del privato potrebbero essere tanti in tutta la Calabria. In genere, il privato tende a selezionare i casi, non fa emergenza-urgenza e scarica sul pubblico le difficoltà più grosse. Qual è la sua impressione su questa realtà, che riguarda una regione già molto provata, con una sanità che fa anche gola alla criminalità organizzata?
«Per rispondere a questa domanda, le faccio un esempio che risale a 40 anni fa. Allora Arnold Relman, a lungo direttore del New England Journal of Medicine, cioè la rivista scientifica più importante del mondo, criticava con forza, in un pezzo famosissimo intitolato The new medical-industrial complex, la nuova industria della salute negli Stati Uniti. Essa, grazie ad attività di profitto come ospedali privati, residenze per anziani, assistenza domiciliare, esami diagnostici e centri di emodialisi, già allora fatturava fra i 30 e i 40 miliardi di dollari all’anno. Qualcuno si chiedeva che cosa ci fosse di male. Secondo Relman, c’era moltissimo di sbagliato. Con tanti soldi sul piatto, si arriva a influenzare in modo del tutto indebito la politica sanitaria di una nazione. Lui si riferiva agli Stati Uniti, noi potremmo dire lo stesso di una regione italiana. Non solo: l’industria della salute, quando è industria, fa esattamente quello che dice lei, non è diversa da qualunque altra industria e finisce per rispondere alle esigenze degli azionisti, invece che ai bisogni degli ammalati. È proprio ciò che sta succedendo in Lombardia o in Calabria. Che cosa è successo negli Stati Uniti nei 40 anni di un sistema che stiamo riproducendo in Italia e dunque in Calabria? Relman aveva ragione. Infatti, il Servizio sanitario del Paese più ricco del mondo costa più di qualunque altro ed è di gran lunga quello con le peggiori performance fra i sistemi industrializzati».

Lo ritiene, insomma, un esempio negativo emblematico?
«Dobbiamo prenderne atto. Guardi, i politici fanno quello che vuole la gente. Si potrebbe invertire la rotta soltanto se la gente pretende un Servizio sanitario nazionale pubblico che ci consenta di non avere la preoccupazione dei soldi quando siamo malati, che ci permetta di essere curati bene per le malattie vere. Infatti, non bisogna abusare del Servizio sanitario pubblico: bisogna rivolgersi al Servizio sanitario quando abbiamo davvero bisogno, quando abbiamo un problema che non può essere risolto in altro modo. Molte malattie si curano benissimo a casa, le può curare il medico di famiglia. È inutile sovraccaricare gli ospedali e finché la gente non chiede questo ai politici, i politici parleranno sempre di tutt’altro: faranno la campagna elettorale su altri punti, ma mai su quello più importante, cioè il futuro della nostra sanità».

Oggi, di là dalla dialettica politica, c’è un ministro della Salute che potrebbe cogliere bene gli aspetti di cui lei ha parlato, in quanto proviene dal mondo della medicina e dall’università. Lei si sente di rivolgere un appello al ministro Orazio Schillaci, e di conseguenza al presidente della Regione Calabria, Roberto Occhiuto, affinché si apra una riflessione di profondità sulla difesa del Servizio sanitario e sull’accesso di tutti i cittadini a prestazioni uguali in tutto il territorio nazionale?
«Questo è proprio il mio appello. Credo che l’occasione di un ministro che è medico, che è stato rettore dell’università, che conosce i giovani, che conosce la formazione, sia veramente un’occasione da non perdere rispetto al problema oggetto della mia intervista al Corriere della Calabria. Tenga conto che il privato realmente tale va benissimo, ma anche il privato che viene in aiuto al pubblico quando quest’ultimo è carente. Facciamo l’esempio di Crotone. Quante persone, a Crotone, avranno bisogno di una mastectomia nell’anno venturo? Gli studi epidemiologici glielo dicono senza sbagliare di neanche 10 persone. Mettiamo che siano 3mila, dico un numero a caso, e mettiamo che esista un servizio pubblico messo in ordine. Come si potrebbe fare? Sarebbe possibile se avessimo gente che si impegna, che abbia voglia, che abbia entusiasmo per la sua terra, per i propri concittadini. Allora un medico calabrese, per esempio in servizio a Boston, potrebbe decidere di tornare per aderire a un simile, meraviglioso progetto. Se messo in ordine, di queste 3mila mastectomie il pubblico può farne 2.500, dunque ne mancano 500. Pertanto, accreditiamo un privato, con tutte le verifiche che prevede l’accreditamento, per le rimanenti 500 mastectomie, ma non per fare tutto ciò che questi vuole. Diversamente, succede quello che lei ha riportato. Si finirebbe tra l’altro per avere, e questo è criticabile anche perché è successo negli Stati Uniti, una medicina tecnocratica: sempre la Tac o la risonanza più sofisticata, sempre il trattamento più avanzato per il tumore, che magari non funziona per il problema specifico. Non ci devono essere delle mode: si deve capire che esistono cose che servono e cose eccessive o che non servono. Ecco, non andiamo avanti, se noi cadiamo in questa medicina tecnocratica, che non organizza le cure partendo dal malato ma partendo dall’apparecchiatura, per esempio dal robot per imporre la chirurgia robotica. No, non funziona così».

Mi sta dicendo che sarebbe opportuno sedersi davanti a un tavolo istituzionale e tecnico per vedere ciò di cui c’è bisogno a livello territoriale, per evitare che il privato prevalga sul pubblico e per risparmiare ai cittadini il dramma e i costi dell’emigrazione sanitaria? Ho capito bene?
«Assolutamente sì. Prima di tutto, bisogna fare un’analisi dei bisogni. Si deve partire dalla ricognizione delle esigenze del territorio, dalla rilevazione dei bisogni della popolazione, dai dati epidemiologici sulla frequenza della singola malattia in ciascuna regione. Bisogna domandarsi che cosa serva al Servizio sanitario, che cosa si può chiedere al Servizio sanitario e in quali ambiti si registrino delle carenze. Allora, per colmare le lacune sarà logico ricorrere alle organizzazioni private e farlo in regime di convenzione. Poi c’è un altro problema fondamentale, cioè la necessità di integrare la medicina delle Cure primarie e quella specialistica degli ospedali. I medici di Medicina generale sono la risorsa più importante che abbiamo per il Servizio sanitario nazionale, ne costituiscono la spina dorsale. Purtroppo, si tratta di liberi professionisti convenzionati. Qualcuno di loro andrà a casa degli ammalati; qualcuno rimarrà nel suo ufficio; qualcuno farà l’ambulatorio di due ore alla settimana; qualcuno sarà bravissimo e altri meno. Queste figure non sono governate, però. Pertanto, dovrebbero poter partecipare all’attività del governo regionale della sanità; altrimenti abbiamo una sanità che non può governare un sistema complesso se manca la base, se la macchina è meravigliosa ma non abbiamo le ruote».

E poi?
«Altra priorità è abolire l’intra moenia, cioè le prestazioni erogate al di fuori dell’orario di lavoro dai medici di un ospedale. Va abolita, preciso, l’attività privata dei medici dipendenti all’interno del loro ospedale. Bisogna mettere fine alle corsie preferenziali, che favoriscono chi può permettersi di pagare o che si sente costretto a farlo. In Calabria questo è un altro problema da considerare. Con la medicina e la tecnologia avanzatissima, ora generiamo dei bisogni che magari non ci sono. Perciò la gente va a farsi curare a Milano, paga la Calabria, i privati si arricchiscono e la Regione si impoverisce sempre di più. Noi non possiamo accettare una cosa del genere, perché se la Regione si impoverisce avremo bambini curati male, avremo gente povera e la povertà è la prima causa di malattie».

Vuole aggiungere altro, professore?
«Sì, e in relazione al mio appello. Torniamo a investire sui giovani. Sono ragazzi straordinari, hanno entusiasmo e disponibilità, per cui devono diventare il motore per riqualificare il Servizio sanitario nazionale. Dobbiamo chiedere loro di lavorare solo per la sanità pubblica, dobbiamo dare loro più soldi, perché, se in Germania guadagnano tre volte tanto, i medici e gli infermieri finiranno per andarsene. Dobbiamo agire subito, perché se aspettiamo ancora sarà troppo tardi e non avremmo più risorse professionali. Infine, bisogna lavorare il sabato, la domenica e nell’arco delle 12 ore, in modo da ridurre le liste d’attesa. Se lei fa un’analisi nel suo ospedale, vede quando si fa la chirurgia, cioè al mattino, e vede quando gli anestesisti vanno a casa e quindi i chirurghi non possono più operare. Se correggiamo questi aspetti, possiamo dedicarci alle liste d’attesa che rimangono. Se non lo facciamo, le liste si allungheranno. Il correttivo non può essere quello di fare più soldi, di avere più macchine per l’ecografia. Il correttivo è, invece, governare il sistema lavorando d’intesa con i medici del Servizio sanitario nazionale». (redazione@corrierecal.it)

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