La Reggio Emilia di Lindo Ferretti dei Cccp rossa e paranoica, gastronomia rinomata, qualità della vita eccellente, gli asili più belli e efficienti del mondo, il Teatro Municipale Valli, nel suo municipio è nato il tricolore italiano ma c’è anche la ‘ndrangheta.
Nella città emiliana in queste ore si parla poco dell’ennesimo sequestro di beni alle cosche calabresi: ben 62 immobili tra abitazioni, fabbricati e terreni che si vanno a sommare a quelli precedenti.
In città e nell’informazione locale tiene banco una polemica rovente stranamente silenziata a livello nazionale.
Roberto Pennisi è un magistrato di gran valore. Grandi inchieste antimafia su tutto il territorio nazionale. In Calabria ha assestato duri colpi ai Piromalli, è stato tra i primi a perseguire l’ecomafia, la toga siciliana fu colui che scoprì la Tangentopoli reggina. Oggi è in pensione. E del suo passaggio a Reggio Emilia ha voluto lasciare traccia su una questione di non poco conto.
Lo scorso 7 marzo, in un’intervista a Luca Fazzo del Giornale, Pennisi ha calato un carico notevole come testimoniava il titolo sulla rivelazione choc del pm: «Mi impedirono di indagare sui rapporti tra cosche e Pd».
Pennisi operò a Bologna sede della Dda tra il 2012 e il 2013, quando deflagra la clamorosa inchiesta “Aemilia” sulla presenza delle ‘ndrine nelle terre del buon governo di sinistra. Ci fu uno scontro, come avviene spesso in magistratura, tra Pennisi e il pm locale Marco Mescolini.
Al tempo Pennisi pensa che il collega non abbia gli strumenti per comprendere, oggi con il senno del poi razionalizza in questo modo sui colletti bianchi della politica rossa: «Le cose possono essere lette in tanti modi. C’era la lettera scritta da un detenuto a un sindaco, è stata letta come una minaccia. E invece il discorso non è così semplice, quella lettera è un segnale, è l’indice di qualcosa che avrebbe potuto essere svelato, e non è stato svelato perché si è scelto di non indagare». Accusa che squilibra la bilancia della Giustizia.
I dati allarmanti di questo buco Pennisi, oltre alla recente intervista, li aveva già elencati in una relazione inviata alla Procura generale della Cassazione rimasta lettera morta in qualche cassetto della Suprema corte. Sul punto il senatore Maurizio Gasparri di Forza Italia ha da tempo presentato un’interrogazione parlamentare per averne copia, il guardasigilli Nordio tace da un mese. Alla relazione di Pennisi è anche allegata un’informativa dei servizi segreti trasmessa al magistrato dai carabinieri che certamente meritava approfondimenti d’inchiesta sui rapporti tra ‘ndrangheta e politica a Reggio Emilia.
Non denunce anonime, non dichiarazioni di pentiti da verificare, ma informazioni qualificate scritte da investigatori. Maria Sergio era la dirigente dell’ufficio di Pianificazione di Reggio Emilia, all’epoca moglie del capogruppo del Pd, Luca Vecchi, uomo forte dei democrat reggiani. Maria Sergio è originaria di Cutro. Il suo nome è spesso rimbalzato nel processo Aemilia chiamata in causa per aver chiesto voti per il marito, oggi sindaco di Reggio Emilia. Ha anche deposto al processo sostenendo insieme al marito di non aver mai incontrato nessuno del suo paese. Tra i soliti sospetti c’è anche un suo cugino, Eugenio Sergio, che ha subito una pesante condanna in Appello a 13 anni per appartenere alla consorteria calabrese, e indicato in passato nei faldoni come sponsor di voti del parente acquisito. Maria Sergio, quando il marito Luca Vecchi è diventato sindaco di Reggio Emilia, è stata trasferita a Modena dove dirige l’ufficio Urbanistica.
Ma torniamo a Pennisi e alla sua intervista.
La lettera citata dal magistrato è stata firmata da Pasquale Brescia, cutrese di Reggio Emilia, imprenditore edile condannato a 13 anni in via definitiva, che rimproverava Vecchi per non avere difeso la comunità a differenza del suo predecessore, nonostante «il sottoscritto e altri imputati facemmo campagna in suo favore, come facemmo per Delrio». Buchi dell’inchiesta Aemilia. Sui rapporti con la politica la Procura rivolse attenzione solo a quelli di destra, Giovanni Paolo Bernini e Giuseppe Pagliani, poi prosciolti.
Dice oggi Pennisi: «Alla fine dell’inchiesta Aemilia non c’è stato un solo politico condannato, eppure da quelle parti accadevano cose incredibili. Indago sulla ‘ndrangheta dal 1991 ma non avevo mai visto che i candidati alle elezioni locali in una città del nord attaccassero i loro manifesti anche in un paesino calabrese (Cutro, ndr). Andava stralciata l’indagine, approfondita la posizione di altri indagati o indagabili per concorso esterno in associazione mafiosa, invece non si fece nulla».
In quella nota dei servizi segreti era indicato il nome di una funzionaria pubblica che avrebbe reso edificabili i terreni degli amici del clan, ci sono altri terreni ceduti alle Coop rosse.
Mescolini, la toga in contrasto con Pennisi, diventato procuratore di Reggio Emilia, vive sotto scorta ma è stato trasferito dal Csm in Toscana per incompatibilità ambientale.
L’indagine ormai è bruciata come ha rilevato Pennisi: «Adesso è tardi bisognava lasciare le esche giuste, e farla allora».
Sull’attendibilità di Pennisi è giusto richiamare il pensiero di Nicola Gratteri che nel suo libro “Complici e colpevoli” lo definisce “lungimirante” e ne cita il pensiero in chiusura della sua analisi sulla ‘ndrangheta in Emilia citando una sua relazione del 2014 in cui si legge: «Più che il territorio in quanto tale con un’occupazione militare, l’infiltrazione ha riguardato i cittadini e le loro menti: con un condizionamento, quindi, ancora più grave».
A Reggio Emilia vivono circa 5000 cutresi, molti nati in Calabria e i loro figli e nipoti nativi emiliani.
Il 20 luglio del 2009 l’allora sindaco Delrio inaugurò assieme al sindaco di Cutro, Salvatore Migale, l’importante arteria cittadina “Via città di Cutro”; anche a Cutro c’è la piazza dedicata a Reggio Emilia, quella da cui parte la frequentata corriera degli emigrati verso la via Emilia.
Antonio Ceraso, nuovo primo cittadino di Cutro, nel novembre scorso in un viaggio a Reggio Emilia quando era ancora candidato in un incontro elettorale in un ristorante accolto da 200 emigrati ha dichiarato che la questione ‘ndrangheta riguarda poche mele marce, annunciando anche di voler difendere nelle sedi istituzionali le imprese a cui vengono negati i certificati antimafia solo perché hanno la colpa di avere qualche parente che ha commesso qualche reato. La vicenda ha creato molto sconcerto negli ambienti legalitari di Reggio Emilia.
A Reggio Emilia secondo la recente relazione della Dia opera la ‘ndrangheta autonomista di Grande Aracri sebbene ben legata a quella di Cutro da cui dipende ma con organizzazione diversa da quella di altre regioni.
I cutresi arrivano in città nel 1966. Secondo il demografo Pietro Pattacini il primo nucleo è insediato da ex militari di leva che trovato lavoro con facilità chiamarono gli altri paesani. Il sociologo Vincenzo Mete invece identifica il primo nucleo in 5 muratori che si trasferiscono dal Bergamasco verso la più accogliente Reggio Emilia. Comunque persone in fuga dal crollo del latifondo, gente onesta che da contadini diventano operai e poi spesso imprenditori edili.
La minoranza criminale che ha contaminato la città degli asili più belli del mondo, arriva con il soggiorno obbligato oppure con Grande Aracri, che pur residente a Cutro dispone di sette fratelli in Emilia per costruire la strutturata rete ‘ndranghetista che noi oggi conosciamo.
Un mosaico complesso quello della ‘ndrangheta a Reggio Emilia, contaminato tra società calabresi ed emiliane finite nelle black list, coinvolte negli affari della ricostruzione del terremoto, appaltatori nelle grandi opere. «Una conquista dal basso» l’ha definita Nando Della Chiesa in suo studio.
Di recente il procuratore della Repubblica di Reggio Emilia in un incontro all’Anpi, da queste parti la cultura partigiana ha un suo peso, ha dichiarato: «La ‘ndrangheta si è trasformata anche rispetto ai fatti registrati dal processo Aemilia in una struttura che ha di mira esclusivamente l’occupazione di posizioni di mercato. Interagisce a tutti gli effetti con gli attori economici, sociali e anche istituzionali di questa regione come del Paese».
Anche queste parole pesanti come pietre. Ci par di capire che la ‘ndrangheta di Reggio Emilia rimane una questione locale. Ad occupare la scena mediatica nazionale restano le solite Reggio Calabria e Cutro. (redazione@corrierecal.it)
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