VIBO VALENTIA «Sono in grado di riferire di omicidi, tentati omicidi e di tante altre cose, la maggior parte delle quali afferenti fatti di ‘ndrangheta». Pasquale Megna è l’ultimo dei pentiti ad aver saltato il fosso per collaborare con i magistrati della Dda di Catanzaro. Arrestato dopo una breve latitanza per l’omicidio di Giuseppe Muzzopappa, il 38enne si “affaccia” nel maxi processo Rinascita Scott. Compare davanti ai pm per la prima volta il 18 febbraio scorso e i suoi primi verbali sono in larga parte omissati. Parla di Nicotera come di un luogo in cui la vita vale poco, Megna. Racconta di sparatorie nate sostanzialmente dal nulla: «A Nicotera – dice – da un semplice furto di non so cosa, forse di gasolio, si è arrivati a tutto questo (due agguati in pochi giorni, ndr), con un ragazzo che ha perso la gamba».
Ne sa qualcosa; anche l’omicidio che ha commesso nel dicembre 2022 ha una storia simile. «Si trattava solo di una questione di tempo – verbalizza – e qualcuno sarebbe morto, o io o lui». Megna girava armato «da tempo» così come un suo familiare. «Si doveva girare armati per evitare di essere assassinati. Ho più volte mandato imbasciate per dire che potevamo stringerci la mano, o anche rimanere nemici e non parlarci e non salutarci, ma che non era il caso di andare avanti così», racconta. «Come risposta – continua – avevo ricevuto dal Muzzopappa la seguente espressione: digli che come li vedo li sparo, a lui, al fratello ed al padre».
La narrazione si sposta al 2 dicembre, giorno dell’assassinio: «Quel giorno in cui sono entrato nel bar a Nicotera non avevo intenzione di uccidere Muzzopappa e (…) io sono sbiancato nel vederlo arrivare. Avevo però la pistola con me, perché ormai mi dovevo “guardare”, ma sapevo bene che i miei figli avrebbero in ogni caso perso un padre: lo avrebbero perso perché rischiavo ogni giorno di essere ucciso da loro, oppure perché uccidendo io qualcuno di loro, sarei finito in carcere. Posso dire che solo quando uscivo con mia moglie e i miei figli ero “immune”, perché non sarebbero arrivati al punto di fare qualcosa alla presenza di una donna e dei bambini. Si tratta di una storia che va avanti da almeno 11 anni, ma anche da prima della morte di Mimmo Campisi, padre di Totò. Da allora la situazione è questa».
Tra i tanti “omissis”, nei verbali successivi Megna affronta una questione che riguarda il proprio padre. «Quando è uscito fuori che Emanuele Mancuso diceva che mio padre è dei servizi segreti, sono andato da mio papà e ho chiesto se era vero, e lui ridendo mi disse che ora vede per avere gli stipendi arretrati. Io non so se faccia parte o no dei servizi ma so che per sfortuna siamo capitati nella famiglia Mancuso (con la quale i Megna sono imparentati, ndr) che io ritengo che sia un cancro, manipolatori che pensano solo al potere e ai soldi. Hanno rovinato tante povere persone e ne rovineranno altre persone ancora convinte di essere con loro». Megna, di professione imprenditore ittico, spiega così la decisione di pentirsi: «Si è uomini d’onore ma i Mancuso l’onore non sanno neanche dove sta di casa. Io ho deciso di collaborare per i miei figli e la mia famiglia e se non riuscirò a finire questo percorso con o senza la mia famiglia accanto dedicherò il resto della mia vita a combattere contro le mafie e a far capire ai giovani che la vita è una e la parte giusta è il lavoro, la dignità e la legalità». Parole contenute in manoscritto consegnato poco più di un mese fa alla pm della Dda di Catanzaro Annamaria Frustaci. (p.petrasso@corrierecal.it)
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