LAMEZIA TERME «Marcello è stato aiutato da me durante la sua latitanza. Mi diceva che aveva preso questa condanna per via della cugina che lo accusava di aver messo pace in una guerra di ‘ndrangheta in atto a Rosarno». A parlare è il nuovo pentito, Pasquale Megna, davanti ai magistrati della Dda di Catanzaro. Il classe ’85 originario di Cinquefrondi ha deciso di collaborare con i magistrati per fornire ulteriori elementi utili al processo, tutt’ora in corso, Rinascita-Scott.
Ha già riempito una serie di verbali e, il 14 aprile di quest’anno, lo ha fatto davanti al procuratore Nicola Gratteri e al sostituto della Dda di Catanzaro, Annamaria Frustaci. E il Marcello di cui parla è Marcello Pesce “U ballerinu”, primula rossa dell’omonimo clan di Rosarno, catturato l’1 dicembre del 2016 quando gli agenti della squadra mobile e il Servizio centrale operativo della polizia lo hanno scovato nella sua abitazione di Rosarno, in provincia di Reggio Calabria, territorio incontrastato della sua famiglia mafiosa. «Non mi disse nulla di specifico – racconta Pasquale Megna – se non che si era preso una condanna a 16 anni per aver messo pace e mi diceva che in effetti aveva messo pace, ma non so dire altro. Posso dire che Marcello Pesce non era come quelli della mia zona: era un uomo intelligente a cui non piaceva parlare di questioni di ‘ndrangheta». Un profilo “intellettuale” da sempre riconosciuto a Marcello Pesce: condannato in appello nel processo “All Inside”, all’epoca della cattura doveva scontare 16 anni e 2 mesi di carcere, dove ha chiesto di portare i libri che aveva nel suo covo, quelli di Proust, Sartre ma anche Tolstoj e Camus.
«Ad ogni modo, fu portato da me, nel mio terreno di campagna da Pasquale Gallone “Pizzichiju”. Me l’ha detto mio padre Assunto Megna che era stato Pasquale Gallone a portarlo lì da noi, perché era mio padre presente quando lo portarono sul posto, io arrivai subito dopo». Pasquale Gallone è un nome già noto negli ambienti della ‘ndrangheta vibonese. È considerato a tutti gli effetti il braccio destro dei Mancuso, una figura di vertice occulta insieme al fratello ed è stato già condannato nel processo “Petrolmafie”. Il racconto di Megna davanti ai magistrati prosegue. E racconta altri dettagli: «Marcello Pesce si nascondeva a Nicotera Marina già da una settimana, dieci giorni, ma mi disse che non si era trovato bene nelle case in cui era andato: era stato inizialmente a casa di Nino Gallone, padre di Pasquale Gallone e mi disse che non vedeva l’ora di scappare da lì perché in quel momento Mico “Nihji” aveva lì la sua residenza in quella abitazione ed era molto pericoloso restare in quella casa». «Marcello mi disse che poi che tramite Pasquale Gallone e Salvatore Rizzo gli avevano trovato una casa sul lungomare di Nicotera Marina, di proprietà di Giovanni Mirabile, ora morto, e che mi ha fatto da padrino al battesimo». I racconti sulla latitanza di Marcello Pesce fornito ai magistrati, tirano in ballo anche il boss della ‘ndrangheta, il “Supremo” Luigi Mancuso. «(…) mi dissero che Marcello si trovava a Nicotera per la sua latitanza, per via di zio Luigi. Marcello mi disse che l’unico della famiglia Mancuso che gli stava veramente a cuore è Luigi Mancuso, gli altri li definiva “roba da Barbara D’Urso e da Novella 2000”, perché avevano dieci mogli e figli sparsi qua e là. Mentre zio Luigi era l’unico che rispettava veramente perché era diverso dagli altri».
C’è un episodio che cambia le carte in tavola durante la latitanza di Marcello Pesce, la scoperta di due telecamere di videosorveglianza che puntavano proprio su di loro. Megna ha raccontato che Pesce si è fermato da lui un paio di mesi «(…) è andato via neanche una settimana prima che lo prendessero (…) mi riferì che nel terreno di campagna di Leo Perfidio “u nanu”, avevano trovato due telecamere grossissime, con le batterie grandi che puntavano una verso casa mia e una verso il terreno di campagna dove era Marcello». A quel punto la prudenza è d’obbligo, sia negli spostamenti che nelle comunicazioni. «Aspettai la sera e andai a Rosarno un paio di volte (…) sono andato un paio di volte a Rosarno perché avevamo saputo delle videocamere: io e Marcello neanche parlavamo dopo la scoperta delle telecamere, ma comunicavamo tra noi scrivendo».
Nel prosieguo del racconto, il pentito spiega come qualche giorno prima della sua cattura abbia aiutato materialmente Marcello Pesce ad andar via della sua campagna, luogo ormai compromesso dalla presenza delle telecamere. Nonostante alcuni nomi degli altri soggetti coinvolti siano omissati, Megna spiega che la sera stabilita per la fuga di Pesce «(…) chiesi un cappellino con la visiera e gli dissi che alle 22 ci saremmo visti nella strada che da Nicotera Marina, subito dopo il bivio della Valtur, va per San Ferdinando». E il piano di Pasquale Megna è ben congeniato. «(…) anziché far mettere il cartone davanti alla videocamera decisi di andare nella mia abitazione di campagna» e lo fa insieme ad una persona il cui nome è omissato «che aveva la stessa corporatura di Marcello Pesce, facendogli indossare il cappellino con la visiera». «Appena arrivato entrammo nella casetta e una volta dentro feci dare il cappello e la maglia a Marcello Pesce». «Accompagnai Marcello fino a dopo il bivio della Valtur, sulla strada per San Ferdinando. All’incontro c’erano 6 o 7 macchine e ricordo che c’era una jeep Mercedes che ritengo fosse a macchina di Salvatore Rizzo. Marcello Pesce salì su una Panda, ma c’erano altre macchine». Il successo del piano, però, avrà breve durata. «Dopo quattro giorni, vennero a prendersi le valige e gliele consegnò mio padre: non so dire però a chi le abbia consegnate. Il giorno dopo la consegna di queste valige Marcello Pesce venne arrestato. Poi Pasquale Gallone iniziò a dire che nelle valige le Forze di Polizia avrebbero messo qualche localizzatore». (g.curcio@corrierecal.it)
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