VIBO VALENTIA «Si doveva girare armati per evitare di essere assassinati. Ho più volte mandato ‘mbasciate per dire che potevamo stringerci la mano, o anche rimanere nemici e non parlarci e non salutarci, ma che non era il caso di andare avanti così. Come risposta avevo ricevuto da Muzzupappa la seguente espressione: “digli che come li vedo li sparo, a lui, al fratello ed al padre”». L’omicidio come scelta di vita, un istinto di conservazione. A descriverlo più o meno così è Pasquale Megna, il 38enne di Cinquefrondi neo-collaboratore di giustizia, i cui verbali stanno ingrossando i faldoni già colmi del maxiprocesso alla ‘ndrangheta Vibonese “Rinascita-Scott”. Quelle di Megna sono dichiarazioni rese a fine marzo del 2023 davanti al procuratore di Vibo Valentia, Camillo Falvo e il sostituto Eugenia Belmonte, che confermano una parte del verbale reso poco più di un mese prima.
Pasquale Megna descrive nel dettaglio tutti gli attimi precedenti all’esplosione dei cinque colpi di pistola con i quali ha stroncato la vita di Giuseppe Muzzupappa. Ma, per farlo, fa un salto temporale all’indietro di qualche settimana. «L’omicidio – spiega – non si colloca nelle ragioni di astio personale tra me e Io stesso Giuseppe Muzzupappa ma si colloca in un contesto diverso. Come avevo precisato non avevamo avuto mai ragione di litigi personali fino al momento in cui io ho picchiato Carlo Di Capua». Il riferimento è ad un episodio che lo stesso pentito colloca tra la fine di agosto e gli inizi di settembre dello scorso anno. Secondo Megna, infatti, Di Capua sarebbe andato nel locale di suo zio e, ubriaco, non aveva voluto pagare il conto, lanciando in aria delle buste di patatine e, soprattutto, avrebbe anche allungato le mani alla figlia dello zio. «Poi è sparito per un po’. L’ho incontrato dopo circa un mese e mezzo e l’ho picchiato. Dopo questo episodio Muzzupappa ha iniziato a prendere le parti di questo Di Capua che, come ho detto, non ritenevo neanche vicino ai Campisi. L’episodio è stato in realtà il pretesto grazie al quale Muzzupappa, che faceva parte del gruppo dei Campisi, voleva colpire me e la mia famiglia per essere vicini e mandare un segnale alla famiglia dell’“Ingegnere”. Questo perché, ripeto, eravamo considerati loro affiliato e ritenuti coinvolti nell’omicidio di Mimmo Campisi» assassinato anche il 17 giugno del 2011. Quindi una vendetta perpetrata «a distanza di anni per quell’omicidio, anni in cui è sempre rimasto l’astio tra le parti e ci sono state solo fasi di “finta pace”».
Il pentito, poi, spiega le ultime fasi che hanno portato all’omicidio. E sono attimi rocamboleschi, quasi da film. «Verso le 19 – spiega – mentre andavo nuovamente in pescheria, ho visto che al bar c’erano i miei operai, i quali mi chiedevano di fermarmi con loro per prendere una birra (…) mi sono messo a parlare con tutte le persone che si trovavano vicino ad un tavolino in fondo al bar. E ad un certo punto ho sentito arrivare una Fiat Panda ad alta velocità, il cui rumore avevo imparato a riconoscere, e mi sono accorto che all’interno c’erano Francesco Pio Campisi e Giuseppe Muzzupappa». «Ricordo – spiega ancora Megna – che nel bar sono entrati i due cugini, Muzzupappa avanti e Campisi dietro, rimasto sull’uscio. Io avevo un gilet aperto ed una 38 special sul fianco destro. Quando li ho visti entrare ho alzato immediatamente il cane della pistola. Muzzupappa, una volta entrato, si è rivolto a me invitandomi ad uscire fuori dal locale. Io non l’ho proprio guardato perché stavo cercando di prendere tempo in quanto speravo che mio padre arrivasse per tempo». Nella descrizione degli ultimi concitati istanti Megna spiega che Muzzupappa lo aveva invitato ad uscire fuori appellandolo “tamburru”. «Quando appelliamo qualcuno “tamburro” intendiamo riferirci ad una persona che non serve a niente». A quel punto Muzzupappa avrebbe preso con la mano destra la pistola che portava con sé, un’arma automatica di piccole dimensioni e «appena ho visto che prendeva la pistola – ha spiegato Megna – io ho impugnato la mia arma e gli ho sparato frontalmente, a circa 3/5 metri di distanza, i primi due colpi. Non ho visto dove l’ho colpito, quando però gli ho sparato mi sono accorto che il suo ginocchio destro ha ceduto facendolo sbilanciare all’indietro e dopo aver sparato io il secondo colpo è caduto con la schiena a terra (…) nel cascare a terra, ha perso di mano la sua pistola. Ricordo che Muzzupappa si è girato, sempre da terra, strisciando per cercare di riprendere la sua pistola e, in quel momento, io gli ho sparato gli altri tre colpi. Infatti, tutti e 5 i colpi che avevo nel caricatore sono stati esplosi. Tutto è successo all’interno del bar».
Nel corso del suo racconto reso davanti al procuratore Camillo Falvo, Megna va oltre e ripercorre tutta la vicenda che ha portato all’omicidio compiuto il 26 novembre 2022 a Nicotera Marina. «Non ci hanno mai potuto vedere perché ci considerano complici o responsabili della morte di Mimmo Campisi». Così descrive l’astio dei Campisi-Muzzupappa nei confronti della sua famiglia Pasquale Megna. «Antonio e Francesco Pio Campisi ritenevano che la mia famiglia (ovvero io, mio padre e mio fratello Giuseppe) fosse vicina a Pantaleone Mancuso “l’Ingegnere”, anche per il fatto che mio fratello era fidanzato con la figlia di quest’ultimo. Quando dico che la mia famiglia era vicina a quella dell’Ingegnere” faccio riferimento ad una cointeressenza anche di natura illecita. Noi infatti attuavamo delle condotte di vero e proprio favoreggiamento nei loro confronti ed eravamo affiliati al gruppo (…) non so mio padre, ma io non ho mai fatto affari con loro, però mi ritenevo parte della loro famiglia». Nonostante la famiglia Megna non avesse mai fatto alcuno sgarro alla famiglia Campisi-Cuturello «abbiamo sempre e solo subito le angherie queste famiglie, anzi abbiamo sempre cercato di mandare imbasciate per mettere pace, ottenendo come risposta solo rifiuti o false rassicurazioni».
E l’elenco di episodi raccontati dal pentito ai magistrati è piuttosto corposo. «(…) ci hanno incendiato la finestra di casa in c. da Mineo ed avevano messo un bigliettino di cui mio padre non ci ha mai voluto dire cose c’era scritto. Ci hanno incendiato la casa di campagna (sempre in c. da Mineo) e noi abbiamo dichiarato che si era incendiata con la stufa e il tappeto». Da quella casa, prima di incendiarla, Megna racconta che si sono portati via anche una carabina di libera vendita ad aria compressa ed un coltello particolare con tante lame che poi è stato visto a casa di Mico Nihii (Domenico Mancuso ndr) «dove ora abita suo padre Peppe ‘Mbrogghia, da questo elemento ho avuto una ulteriore conferma che sono stati loro (…) e ancora, hanno sparato alla porta di casa dove abita ora mio fratello». «Quando parlo di “meschinate fatte alla mia famiglia” – spiega Megna al procuratore Falvo – mi riferisco a fatti che risalgono al periodo non più lontano dal 2011, perché sono vicende accadute quando mia zia Tita era ancora in vita». Megna poi racconta di aver vissuto al vecchio indirizzo dal 2008 fino all’indomani dell’omicidio di Domenico Campisi «(…) per via di quanto era accaduto nel vedere Totò Campisi fermo con la macchina nei pressi di casa mia».
C’è un episodio più significativo di tutti ed è legato ad una bomba posizionata davanti al portone di casa. «(…) come ho già dichiarato, hanno sbagliato portone perché mandarono a posizionarla un ragazzo bielorusso, adottato da una famiglia di Limbadi e che viveva in quel paese. Il ragazzo la posizionò davanti alla porta di un vicino di casa. La bomba era diretta a me e a mandare questo ragazzo furono i componenti della famiglia Campisi-‘Mbrogghia-Mezzodente che, in quel periodo, erano insieme e formavano un unico gruppo». «In particolare – spiega Megna – furono Totò Campisi, Alfonso Cuturello (figlio di Salvatore Cuturello e di Francesca Mancuso ‘Mbrogghia detta Franca, lo stesso Salvatore Cuturello, Domenico Mancuso “Nihii” e Giovanni Rizzo “Ciopati” o “Mezzodente”». «Anche Giuseppe Muzzupappa faceva parte di questo gruppo, insieme ai fratelli Antonio e Alfonso Cuturello, figli di Roberto Cuturello, nipoti di Giovanni Mezzodente (perché figli di sua sorella)». Il pentito spiega poi altri aspetti legati proprio al posizionamento della bomba, illustrando anche i motivi che hanno portato all’episodio. «Questo fatto fu voluto da Totò Campisi, da Salvatore Cuturello e da Mico Nihii, per come mi venne riferito da Alfonso Cuturello, figlio di Salvatore, il quale mi disse che colpendo me volevano fare un dispetto ai due cugini, ai due Luni (Luni “Scarpuni” e Luni “l’ingegnere”). Anche lo stesso Alfonso Cuturello era coinvolto nella vicenda».
«Il gruppo ha finito di fare questi dispetti quando è uscito zio Luigi Mancuso dal carcere e li ha chiamati dicendogli di “non farci più questi danneggiamenti. Il periodo risale al 2015/2016 perché zio Luigi era latitante volontario essendosi sottratto alla sorveglianza speciale e mandò a chiamare Antonio Mancuso, figlio di Peppe ‘mbrogghia, convocandolo presso la nostra campagna e dicendogli di lasciarci stare e “fare conto che i figli di Assunto, cioè mio padre, fossero suoi figli». «Dopo tutti questi episodi, un giorno mi ha invitato a cena – come ogni anno dopo la tosatura delle pecore Giovanni Rizzo “Mezzodente”, dato che con me faceva due facce. Mi ha invitato a mangiare al ristorante e accettai: ma arrivai tardi e mi dovetti sedere davanti ad Alfonso Cuturello, figlio di Salvatore, nonostante fossimo nemici e non ci parlassimo. Ad un certo punto Alfonso stranamente inizia a darmi retta, a darmi confidenza e a versarmi il vino nel bicchiere, come se tra noi non fosse successo niente».
Nelle prime dichiarazioni Megna parla di una cena che poi rettificherà, specificando che invece si trattava di un pranzo. «(…) il giorno successivo mi chiamò Antonio Rizzo, figlio di Giovanni “Mezzodente”, una persona educata e cresciuta diversamente dagli altri cugini. Mi disse che Alfonso gli aveva raccontato che eravamo stati seduti al tavolo insieme che ci eravamo dati confidenza. Pertanto, Alfonso chiedeva di poter parlare con me. Chiesi così ad Antonio se suo cugino Alfonso volesse parlare con me per “fare pace” o “per fare la guerra” e avuta conferma che voleva riappacificarsi, andai a Nicotera Marina (…)». «Chiesi ad Alfonso: “mi puoi dire almeno in cosa ho sbagliato io, per tutte queste cose che ci avete fatto?” e mi disse: “Non centri niente tu, ma mio zio (riferendosi all’“Ingegnere”) e tuo zio (riferendosi a “Scarpuni”) meritavano anche di peggio ed è per causa loro che sono successe queste cose». E così Megna racconta di aver detto ad Alfonso Cuturello che, prima di fare pace, doveva andare da sua madre Franca Mancuso e da suo zio Mico Nihii e vedere cosa gli dicevano «poiché per me, più che un’amicizia, un saluto poteva anche esserci. Al suo ritorno, Alfonso, disse che suo zio e sua madre gli avevano riferito che l’importante era che non succedessero più queste cose, come se volessero far capire che non avevano mai avuto a che fare con tutti i danneggiamenti e con gli episodi successi alla mia famiglia, mentre in realtà erano proprio loro gli artefici». (g.curcio@corrierecal.it)
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