LAMEZIA TERME Nella sanità calabrese «bisogna distinguere tra le milizie e le gerarchie. Le milizie sono eccellenti: il personale medico e paramedico fa un lavoro enorme in mezzo a mille difficoltà. Purtroppo la sanità calabrese paga lo scotto di ventennali scelte politiche trasversali errate, fatte colpendo un sistema che era già agonizzante e sono riusciti ad ammazzarlo». Non usa giri di parole Massimo Conocchia, cardiochirurgo dell’azienda ospedaliero-universitaria “Maggiore della Carità” di Novara e docente di Cardiochirurgia della Scuola di specializzazione in “Malattie dell’apparato cardiovascolare” all’Università del Piemonte Orientale. Originario di Acri, Conocchia (che è anche autore di saggi e romanzi) è una delle tante eccellenze del settore sanitario che si sono affermate fuori dalla regione. Il suo sguardo sulla sanità è lucido e impietoso: «Che cosa voglio dire? La politica scellerata è quella di chiusura indiscriminata e acritica degli ospedali. Negli anni 2010-2015 sono stati chiusi in Calabria 18 ospedali. Di questi 18, tre sono in via di riapertura, per dire quanto acritica sia stata quella scelta. In un sistema che già che era già al collasso, hanno chiuso gli ospedali con la premessa che bisognava potenziare il territorio, cosa che non è avvenuta. Morale: le strutture che sono rimaste aperte scoppiano perché devono far fronte alla richiesta di un territorio molto più ampio».
Conocchia parte con l’esempio di una realtà che conosce bene: Acri. «Acri – spiega – era un ottimo ospedale, ospedale di una zona di montagna che, dista 35 chilometri dal capoluogo con delle strade impervie. L’hanno fortemente depotenziato – dice – chiudendo la medicina e trasformandola in lungodegenza. C’era un’ottima chirurgia, c’era un’ottima ginecologia: le hanno chiuse e i colleghi che ci sono fanno i salti mortali per garantire l’assistenza. Ma, essendo depotenziato l’ospedale, sono costretti poi a rivolgersi a una rete molto più ampia che sta scoppiando, perché – avendo chiuso gli ospedali periferici – gli ospedali centrali non ce la fanno».
Per tornare al principio, in Calabria ci sono «ottime professionalità che purtroppo pagano lo scotto di scelte politiche errate, scelte politiche che non possono che peggiorare con l’autonomia differenziata, perché con l’autonomia differenziata si creeranno venti Regioni a statuto speciale». Il cardiochirurgo ritiene che «sanità e scuola non dovrebbero essere a gestione regionale, ma a gestione nazionale. La Regione dovrebbe valutare la nomina dei direttori generale, dei primari, ma non le linee guida e gli indirizzi che dovrebbero essere nazionali. In questo modo chi ha più soldi avrà più appeal».
Altro esempio: «La Lombardia potrà dire ai medici calabresi: “Venite a lavorare da me che vi pago di più” e quindi una regione come la Calabria – già in affanno quanto a personale medico, tanto è vero che deve rivolgersi a personali che viene da fuori dall’Italia – lo sarà ancora di più».
Conocchia ripensa anche al proprio percorso, quello che lo ha portato lontano dalla Calabria. «La mia – io ho fatto il cardiochirurgo – è stata una scelta obbligata, perché quando io ho iniziato, c’era di fatto una sola Cardiochirurgia in Calabria». Oggi le cose sono cambiate («sono due le Cardiochirurgie in una regione che conta circa due milioni di abitanti») e i numeri danno Conocchia lo spunto per un’altra riflessione: «Nella sola città di Milano, per un numero simile di abitanti, le Cardiochirurgie sono 18, tra pubblico e privato accreditato. Si capisce quanto la mancanza di strutture sanitarie ad alta specializzazione possa essere un elemento forzato che impone ai medici di andare a lavorare fuori. Nessuno esce dalla propria terra – io, peraltro, la amo – volentieri. Se lo fa, lo fa per una prospettiva di carriera lavorativa che questa regione, per mancanza di strutture sanitarie ad alta specializzazione, non riusciva ad offrire. E penso che così sia per tanti altri colleghi».
Nel settore della Cardiochirurgia, dopo gli anni del Covid, «si stanno facendo i salti mortali per cercare di recuperare il gap qui in Piemonte. Ma il problema non è solo delle patologie cardiovascolari. Ci sono altre patologie – e sto facendo un discorso nazionale, ovviamente – che sono le patologie neoplastiche, e anche quelle pagano lo scotto di un ritardo di diagnosi, di un ritardo di avvio, di chemioterapia piuttosto che di chirurgia, che purtroppo è uno degli effetti collaterali del Covid, che sia per quanto riguarda le malattie cardiovascolari, sia per quelle oncologiche, in special modo queste due branche pagano uno scotto importante. Io credo che tanto si stia facendo, ma sempre giocando sullo spirito di abnegazione dei medici».
Molti calabresi, come peraltro certificato dai numeri sulla migrazione sanitaria, varcano i confini regionali proprio per cercare interventi di alta complessità. Chiediamo a Conocchia se percepisca l’esistenza di un problema di fiducia dei calabresi nei confronti del “loro” servizio sanitario regionale. Il cardiochirurgo – che evidenzia il proprio amore per Acri e la sua terra – spiega che, «al di là della fiducia, c’è un discorso di mancanza di strutture ad alta specializzazione. Perché pensare di affidare patologie come quelle cardiovascolari solo a due centri per una regione di 2 milioni di abitanti costringe la gente a curarsi fuori. Ma non credo che si esca fuori per scelta. Credo sia un mix tra scelte obbligate per mancanza o comunque insufficiente numero di strutture d’alta specializzazione e per un rapporto consolidato decennale che incide. Però ritorniamo sempre lì: la professionalità dei medici calabresi è altissima ma pagano lo scotto di politiche sbagliate e scellerate fatte sulla pelle dei calabresi. Molti calabresi si rivolgono a me – e questo mi onora e li ringrazio –, ma credo che al di là del rapporto personale ci sia anche la necessità di avere delle risposte che, spesso, per la mancanza di strutture ad alta specializzazione forse non arrivano con la rapidità con cui dovrebbero arrivare. Mi riferisco soprattutto alla branca cardiochirurgica». (redazione@corrierecal.it)
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