COSENZA Mauro Esposito è un architetto e un imprenditore piemontese di 58 anni, giunto alla ribalta nazionale per aver denunciato la ‘ndrangheta. La sua storia è finita in un libro uscito nel 2019 (“Le mie due guerre – Ho denunciato la ‘ndrangheta. Ho combattuto da solo. Ho vinto”, edito dalla Nave di Teseo) in cui racconta di essere diventato un testimone di giustizia «per smascherare la mafia di appalti truccati e soldi facili che teneva in pugno Torino». Una battaglia civile che ha portato a 19 condanne, «e alla scoperta di un mondo nascosto e fatale in cui è difficile distinguere gli amici dai nemici». La sua vita, prima dell’avvento della ‘ndrangheta, era «a colori». Con grandi sacrifici aveva creato una società di ingegneria tra le più quotate al mondo. «Avevamo cantieri in Oman, a Dubai. Stavamo addirittura meditando di comprare un aereo, ci sarebbe convenuto tanti erano i voli che prendevamo». Poi tutto è cambiato in un attimo.
In un’antologia di prossima uscita (“La tazzina della legalità”), che racchiude, tra le tante, le testimonianze di personaggi come Pino Masciari e Klaus Davi, Esposito afferma di credere fermamente nelle scelte che ha fatto, «però – sottolinea – se dovessi consigliare a qualcuno di affrontare questo supplizio, prima gli direi di trattare con i suoi estorsori cercando in loro la pietas cristiana, chiedendo loro quanto costerebbe la sua serenità, quanto dovrebbe pagare per salvare la sua vita e quella dei suoi cari e sono certo che se riuscissero a giungere a un accordo, questo accordo i delinquenti lo onorerebbero. Lo Stato no. Lo Stato promette e poi ti tradisce». In una lunga intervista rilasciata oggi al Corriere della Sera, l’imprenditore dice di non avere più paura ma ammette di essere stato un uomo distrutto. «Per anni – evidenzia – non sono riuscito a guidare. Non dormivo. Avevo attacchi di panico continui, tachicardie, flash notturni. Dopo cena, come a una certa ora le zanzare d’estate, tiravo un sospiro di sollievo. Poi ricominciava tutto. All’una prendevo lo Xanax, la mattina gli psicofarmaci. Come molte altre vittime di mafia mi è stata diagnosticata la sindrome da ansia post traumatica da stress per la quale dovrei avere un risarcimento che non ricevo, nonostante lo Stato abbia perso una causa che gli impone di pagarmi». Quando i suoi figli la sera rientrano a casa, il momento peggiore è il tragitto che percorrono dalla macchina alla porta di casa. «Fino a quando non la sento chiudersi non respiro».
Il momento più drammatico Mauro Esposito lo ha vissuto nel 2014, con i conti bloccati e le proprietà pignorate. «Andai da un noto avvocato torinese – racconta sempre al Corriere della Sera –. “Lei è un bancarottiere”, mi disse, “la smetta di dirmi delle balle. A insinuare della mafia. La colpa è sua”. Mi umiliò. Era sopra Platti, andai nel bagno del Caffè e vomitai. Ero a pezzi. Poi tornai in ufficio con la certezza che la mia vita era chiusa. In quell’istante ricevetti una telefonata dei Ros: “Accenda il televisore, il suo incubo è finito”». Quella telefonata svelava l’avvio dell’operazione “San Michele” che coinvolgeva varie famiglie del Canavese. «Io avevo denunciato – afferma Esposito –. Avevo tutti i giornalisti fuori di casa. Chiamai il “principe del foro” che si vergognò al punto che non si fece passare». Nel 2013 l’imprenditore torinese è stato condannato per esercizio abusivo della professione, per via di una legge (abrogata) del ventennio fascista che vietava alle società di ingegneria di lavorare per privati. «Ma non ce l’ho con il giudice – ammette –, voglio credere nella buona fede. Ma quando un giudice sbaglia, dovrebbe essere lo Stato a risarcire. Invece, fa a gara per trovare un vizio formale pur di non pagarti. La mia vicenda è una sequela di errori della Pubblica Amministrazione in ogni sua forma». E poi ancora: «Chiunque abbia a che fare con il sistema della ‘ndrangheta e la denuncia, pagherà con lo Stato un conto salato».
Esposito al Corriere della Sera rivela anche di aver pensato al suicidio. «Era il 23 dicembre – spiega nell’intervista –, ero alla Parrocchia della Beata Vergine in Crocetta. Vedevo ‘ndrangheta dappertutto, ma non ero pazzo. Avevo bisogno di parlare con qualcuno che capisse cosa mi stava accadendo. Maurizio Corgo era un sostituto commissario e una persona di cui mi fidavo. “Devo riferirle alcune cose”. Mi raggiunse al caffè Piazzi, seppi solo dopo che aveva lasciato sua figlia in macchina oltre un’ora per parlare con me. Ero sull’orlo di buttarmi dal ponte. Al posto della tombola in famiglia era lì che mi rassicurava: “Deve avere fiducia nella giustizia, creda nelle forze dell’ordine”. Me lo ripeté almeno dieci volte». In tutta questa storia, resta comunque qualcuno da salvare. «Devo tutto ai carabinieri – afferma l’uomo – alla Procura della Repubblica, ai giudici penali. Mi hanno salvato la vita. E non solo dalla mafia. E anche a Pino Masciari, a Libera e a Legalità Organizzata». Matteo Renzi, a quell’epoca presidente del Consiglio, prese in mano la questione della legge di Mussolini «dichiarando la “mia sentenza” un abbaglio giudiziario – ricorda l’uomo –. A lui, alla Bonomo, a Stefano Esposito e a Davide Mattiello sarò sempre grato; Milena Gabanelli che mi chiama al telefono, una scintilla. Oggi mi fido moltissimo del sottosegretario di Stato Alfredo Mantovano, uomo di grandissimi valori e di Giacomo Portas che mi ascolta e consiglia come un fratello maggiore».
Oggi Mauro Esposito sogna di diventare un parlamentare «per occuparmi delle cose che conosco bene. Il problema non è solo la malavita, tutto nasce dall’inefficienza della burocrazia e dalla mancanza di coraggio di fare le scelte giuste. Che non si fanno perché la politica è un’eterna campagna elettorale e quelle sono cose che poi non ti fanno rieleggere. Mi cercano poco perché la verità non la vuole nessuno».
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