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Lombardo: «La massoneria e la “Cosa unica”. Cos’è diventata la ‘Ndrangheta»

Il procuratore aggiunto della Dda di Reggio in Commissione antimafia. «Si parla troppo poco della struttura unica delle grandi mafie italiane»

Pubblicato il: 24/04/2023 – 6:40
di Pablo Petrasso
Lombardo: «La massoneria e la “Cosa unica”. Cos’è diventata la ‘Ndrangheta»

REGGIO CALABRIA «Incredibilmente e inspiegabilmente non ci si intrattiene abbastanza sulla cosiddetta struttura unica delle grandi mafie italiane». Le parole di Giuseppe Lombardo, procuratore aggiunto della Dda di Reggio Calabria, ai parlamentari della Commissione antimafia, arrivano il 7 dicembre 2021. Un anno e mezzo dopo, il processo ‘Ndrangheta stragista – da cui emerge l’esistenza della “Cosa unica” – è arrivato al giudizio di secondo grado, con gli ergastoli confermati per i boss Giuseppe Graviano e Rocco Santo Filippone. È nel delineare quella «struttura unica» che Lombardo tocca quattro punti centrali nel discorso (investigativo e non solo) sullo sviluppo delle mafie nel Paese: i rapporti con la massoneria, la creazione di sistemi criminali evoluti a partire dagli anni Settanta, l’esistenza di un direttorio della ‘Ndrangheta e la “Cosa unica”, entità che tiene assieme tutte le organizzazioni criminali del Paese.

La “componente massonica” della ’Ndrangheta

Il primo: la conferma dell’esistenza «di quella che i suoi stessi componenti definiscono come “componente riservata” o “invisibile” o “componente massonica”» della ‘Ndrangheta. «Quando si parla di componente massonica in ambito di ‘ndrangheta, ma questo discorso riguarda anche le altre grandi strutture criminali, non si parla quasi mai di massonerie regolari – dice il magistrato –. Penso che questo sia un dato di particolare rilievo, che però necessita di una ulteriore specificazione. Questo dato non significa che non ci possano essere componenti regolari che si trasformano in componenti deviate, irregolari, per entrare a far parte dei sistemi criminali di tipo mafioso particolarmente evoluti». La teoria si accompagna agli esempi tratti dalle inchieste. Sono intercettazioni citate a più ripetizioni quando si tratteggiano le sfumature massoniche delle organizzazioni criminali. La prima arriva dall’inchiesta Purgatorio della Dda di Catanzaro; la frase di cui Lombardo offre la sintesi appartiene a Pantaleone Mancuso: «La ‘ndrangheta gliel’abbiamo lasciata a quattro “storti”. Adesso quelli che contano sono coloro i quali fanno parte della massoneria». La seconda è nelle carte dell’operazione Bellu Lavuru: «Attenzione, non conta la componente visibile, che è la ‘ndrangheta di base, che deve vedersi, per manifestarsi sul territorio. Quello che conta, io ne faccio parte da qualche anno, è la componente invisibile o massonica».

I viaggi di Pennino in Aspromonte negli anni Settanta

Lombardo sottopone poi alla Commissione «una serie di elementi che conducono all’affermazione della esistenza di una sola organizzazione, che in sé racchiude le mafie di Sicilia, Calabria, Puglia e Campania». Parte, come sempre, dal racconto di quanto emerso nel corso indagini. «Quando iniziamo a sentire collaboratori di giustizia siciliani (e ne sentiamo oltre 80), ai quali poniamo domande, non su Cosa nostra, ma sulla ‘ndrangheta, questi cominciano a raccontare tutta una serie di particolari, che il collaboratore calabrese ovviamente bypassava nel suo racconto». Il magistrato si concentra su una «battuta» di Gioacchino Pennino. Il pentito «viene interrogato per la prima volta dalla Dda di Reggio Calabria nel 2014 e la prima cosa che dice è: lo sapete che io collaboro dal 1994? Sì. E lo sapete che già in quegli anni io ho parlato di Calabria? Sì. E ci avete messo 20 anni, però, per venire a sentirmi». Pennino dice di essere «un riservato di Cosa nostra. E così parlano tutti i soggetti collegati a Leoluca Bagarella, nel momento in cui si cerca di comprendere quali sono le dinamiche davvero di alto livello che riguardano anche l’operatività di Cosa nostra». Pennino dice ai magistrati che «conosce benissimo Reggio Calabria. Io chiedo: come mai? Perché, sa, dice, io regolarmente tagliavo i capelli in un barbiere che è alle spalle del Museo archeologico, perché mio zio omonimo, Gioacchino Pennino, uomo di Stefano Bontade, ogni 15 giorni veniva a Reggio Calabria, mi lasciava all’Excelsior o nei dintorni, in realtà un altro albergo, ma nella zona dell’Excelsior, dove noi attendevamo che lui tornasse dalle riunioni che intratteneva in Aspromonte, ospitato dai fratelli Musolino». Che, ricorda il procuratore aggiunto, «salvo una misura di prevenzione che riguarda Rocco Musolino, muoiono incensurati». Lombardo si chiede «cosa andava a fare suo zio in Aspromonte? Andava a interloquire per creare un sistema criminale particolarmente evoluto. E siamo negli anni Settanta». In questo sistema «accanto alla componente tipicamente mafiosa, devono operare altre componenti: istituzioni deviate o infedeli, professionisti al servizio delle grandi mafie, purtroppo anche componenti politiche, mi viene da dire, appartenenti infedeli anche ai servizi di sicurezza». È una costruzione complessa «in grado di interagire con tutti i centri di potere che contano», e “deve” contenere anche «la componente massonica nell’accezione che vi spiegavo prima». Pennino sa queste cose perché «prima dell’uccisione di Stefano Bontade, Stefano Bontade lo chiama e gli dice: senti, adesso tuo zio è morto, bisogna proseguire il progetto che lui ha avviato con i calabresi molti anni fa. Perché devi sapere, caro Gioacchino (adesso sto parlando del collaboratore di giustizia), che, mentre in Calabria questo progetto è operativo da molti anni, in Sicilia non è ancora partito».

Il “coso dei sette”

È, questo, un elemento da mettere in prospettiva nel ragionamento del magistrato. «Che cosa vuol dire – si chiede –: in Calabria è già partito e in Sicilia non è ancora operativo? Significa che, nel momento in cui noi arriviamo alle risposte del processo Gotha, noi arriviamo alle risposte di un percorso di trasformazione della ‘ndrangheta che va ben oltre la Santa, come componente apicale che è stata raccontata finora, e torniamo al livello decisionale». Quello che i collaboratori di giustizia siciliani dicono è «guardate che in Calabria esiste un direttorio che è formato da pochissime persone. È formato dai soggetti apicali dei tre Mandamenti, che, contrariamente alla Provincia, è l’organo che prende le decisioni». Per Lombardo lo suggerisce (anche) la logica: «È immaginabile che la ‘ndrangheta riesca ad operare nel mondo con la forza che ha, con la capacità di adattarsi a determinate situazioni e ad assumere sempre determinazioni corrette senza che abbia un organo decisionale di vertice?». Il direttorio viene indicato ai magistrati «da un collaboratore particolarmente importante di Catania, che è Giuseppe Di Giacomo, che ne ha sentito parlare». I catanesi hanno legami storici con la ‘ndrangheta del Reggino e «nel momento in cui Di Giacomo ha necessità di comprendere come le due organizzazioni criminali interagiscano e si confrontino tra di loro, gli viene spiegato che in Sicilia esiste ovviamente quello che è stato ricostruito e che è a tutti noto, e che in Calabria, come componente di vertice che ha ruoli decisionali, esiste un’identica componente, che però ancora a livello giudiziario non è stata in alcun modo ricostruita. La chiama direttorio e fa sette nomi, che sono i vertici, le grandi famiglie di vertice dei tre Mandamenti».
Anche in questo caso, Lombardo accompagna il racconto a un’intercettazione confluita nel processo Gotha. Parla il reggente della cosca Libri, Filippo Chirico. «Nel momento in cui Chirico, pressato, ha necessità di capire se, morto Pasquale Libri, per lui è arrivato il momento di fare il salto di qualità, la sua amante gli chiede: ma spiegami come funziona veramente al vostro interno? E lui risponde con una frase che è straordinaria nel dire: guarda, attenta che loro – cioè noi (gli inquirenti, ndr) – sanno tutto. Sanno dell’Australia, sanno del Canada, sanno delle proiezioni estere, ma una cosa non la sanno, che esiste “il coso di sette”, perché la questione De Stefano gliel’ha calata. Questo organismo, “il coso di sette” lo chiama, guarda caso ha lo stesso numero di soggetti di cui parla Giuseppe Di Giacomo. “Il coso è di sette”, cioè l’organismo che comanda è formato da sette soggetti».

Trent’anni di “Cosa unica”

La chiusura anche ideale del cerchio arriva nella parte finale dell’audizione di Lombardo. Che torna indietro di trent’anni per raccontare un episodio accaduto proprio durante una riunione della Commissione parlamentare antimafia nel dicembre 1992. Si tratta della lunga audizione del collaboratore di giustizia Leonardo Messina, «che adesso è difficilissimo trovare e non sappiamo dove sia». Le risposte fornite da Messina più di tre decenni fa, dovrebbero essere poste, secondo il magistrato reggino, «al centro dell’agenda dei lavori se vogliamo comprendere come le grandi mafie interagiscono tra loro e, soprattutto, come interagiscono con i centri di potere». A Leonardo Messina viene chiesto «di spiegare meglio che cosa intendeva nei verbali, che ovviamente erano già noti, nel momento in cui parlava di movimenti autonomisti, di leghe meridionali e di tutta una serie di iniziative che servivano a creare le premesse di un progetto che si stava portando avanti in ambienti criminali all’epoca». Il pentito racconta che quel progetto lo stanno portando avanti «in tutti i territori in cui c’è Cosa Nostra. Allora i Commissari gli chiedono: perché, scusi, in quali territori c’è Cosa nostra oltre la Sicilia? Lui risponde: in Calabria, in Campania, in Puglia. Ma scusi, ma che cosa vuol dire questo discorso? Che Cosa nostra abbraccia anche la ‘Ndrangheta ? E Messina risponde: presidente (all’epoca il presidente era Luciano Violante, ndr), noi siamo una cosa unica».
Venute meno le “differenze” tra le mafie si rimettono in prospettiva anche gli eventi che riemergono nel processo ‘Ndrangheta stragista. «Cosa nostra calabrese: chi erano? Da chi era rappresentata negli anni in cui, tra fine 1993 e inizio 1994, si uccidono due carabinieri e se ne feriscono altri quattro? Proprio ad opera dei De Stefano-Piromalli?».

Le logiche unitarie, Papalia «capo di tutto» e la ‘ndrangheta leader del narcotraffico

Messina dice «signori, siete fuori strada nel ritenere la mafia siciliana sia un qualcosa di diverso dalla ‘ndrangheta calabrese, perché noi siamo una cosa unica. Tanto è vero che, a un certo punto, un Commissario gli chiede: mi spiega meglio che cosa significa che Messina è controllato dalla ‘ndrangheta? E quello gli risponde: non mi sono spiegato bene. Se c’è la ‘ndrangheta, ci siamo noi; se ci siamo noi, c’è la ‘ndrangheta. Siamo una cosa sola. Il sistema criminale ha determinate caratteristiche – gli spiega – e ha dei soggetti di vertice, che sono soggetti universalmente riconosciuti da tutte le componenti mafiose». Ai commissari scioccati, il pentito oggi introvabile spiega che «da decenni che esiste la Commissione nazionale e quella mondiale di Cosa nostra». Lombardo osserva: «Ecco il narcotraffico internazionale secondo determinate logiche unitarie, secondo quelle logiche per le quali, ad un certo punto, esce Cosa nostra ed entra la ‘ndrangheta. Questa è la chiave di lettura che noi dobbiamo dare a determinati fenomeni».
«E nel momento in cui si intrattiene sul ruolo di Totò Rina come vertice nazionale, Messina dice: perché adesso è Totò Rina, nell’ultimo periodo è Totò Rina. In altri periodi è stato un altro e in futuro sarà un altro ancora». Si torna a ‘Ndrangheta stragista: nei verbali depositati in d’appello, continua Lombardo, «troviamo le dichiarazioni di un collaboratore di giustizia fedelissimo dei Papalia di Platì. E voi sapete che Platì e Sinopoli significano Australia, Siderno significa Canada e Nord America, Africo significa Sud America. A questo collaboratore di giustizia si chiedono tutta una serie di specificazioni sul ruolo dei Papalia, questa grande famiglia che, come sapete, è egemone in Lombardia, perché Antonio Papalia era il capo della Lombardia già negli anni 90. (…) Il collaboratore dice: Micu Papalia, che è il grande capo di tutto, attenzione, non è soltanto il capo famiglia, ma è il vertice nazionale». (p.petrasso@corrierecal.it)

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