CARAFFA DI CATANZARO Semplificare la vita ai ricercatori di tutto il mondo applicando le conquiste ottenute dalla ricerca nel campo della chimica direttamente nell’ambito industriale. Tagliando tempistiche legate ad errori umani e standardizzando procedure che finora hanno comportato anni di ritardi. È di una startup calabrese l’intuizione di realizzare un progetto che consentisse questi progressi e che si annuncia come una sorta di rivoluzione copernicana, nel settore delle tecnologie chimiche. Nata nel 2019 a Caraffa di Catanzaro, la Katakem ha trovato nei suoi soci fondatori – Marco Francardi con la moglie Manuela Oliverio ed il fratello Luca – la tecnologia per scoprire “l’uovo di Colombo”: un robot capace di replicare con esattezza procedure manuali acquisite in anni di ricerca nel campo chimico. Si chiama OnePot, ed è in grado di processare – come annuncia il suo stesso nome adottato dal campo della chimica “tutto insieme” – formule chimiche. Un reattore intelligente che, una volta caricata la “ricetta”, è capace autonomamente di eseguire esattamente quanto si è conquistato sul campo della ricerca chimica. Alla base un lavoro portato avanti da Marco Francardi, un ricercatore con alle spalle 15 anni di esperienza sul campo (Itt, Cnr, Sissa e Kaust), Manuela Oliverio con dottorato in Scienze Farmaceutiche ottenuto a UniCal e 17 anni di lavoro nel settore della ricerca (Iit, Università di Torino, Cners e Karl-Franzens Universitat di Graz) e Luca Francardi. Ed ora quell’idea dei tre fondatori si è trasformata in una realtà produttiva che ha una sede operativa a Caraffa di Catanzaro ed una che si occupa del marketing a Milano, ma soprattutto garantisce occupazione – 12 dipendenti all’attivo – ed uno sviluppo futuro di tutto riguardo. Attualmente infatti produce due modelli di reattore (OnePot 1L e OnePot 5L), ma già da quest’anno è in fase di lancio il modello più grande, OnePot 100L, capace di processare come nel nome del prodotto ben 100 litri di reagenti. Il progetto ha preso le mosse con un investimento iniziale di 100mila euro interamente versato dai fondatori, a cui si sono aggiunti 200mila euro ottenuti dalla startup grazie alla partecipazione al bando “Talent Lab” della Regione. Poi ulteriori 200mila euro sono stati acquisiti dalla società grazie ad una campagna di Crowdfounding da 200mila euro su piattaforma Backtowork ed infine 850mila euro con un finanziamento con garanzia microcredito della Bcc di Montepaone e un brigde round da 600mila euro con contratti Safe. E le ambizioni non mancano «vorremmo chiudere entro luglio un aumento di capitale da due milioni», spiega il Ceo della startup catanzarese Marco Francardi. «E la crescita del personale sarà esplosiva -. annuncia – chiuderemo il 2023 con circa 30 dipendenti. Ed il piano di assunzioni prevede di arrivare a circa 300 persone alla fine del 2027».
Francardi, come nasce l’idea di realizzare il robot OnePot?
«OnePot nasce più dall’esperienza vissuta che da un’idea: infatti io ho lavorato per più di 15 anni all’interno di ambiti di ricerca in laboratorio in cui facevo nanotecnologie e lavoravo con la chimica. Nella vita privata poi ho avuto la fortuna di incontrare Manuela Oliverio, mia moglie, con la quale abbiamo potuto condividere le nostre esperienze professionali. Manuela è professore associato in chimica organica con esperienza quasi ventennale all’interno dei laboratori di sintesi chimica. Quello che abbiamo fatto è stato mettere a sistema le nostre esperienze nel renderci conto che all’interno del mondo della ricerca erano presenti grandissimi sprechi di tempo e di risorse legati a una bassa riproducibilità dei risultati di laboratorio. Questo era legato a due elementi fondamentali. Il primo dovuto ad uno scarso controllo di quelli che erano i parametri ambientali all’interno dei quali venivano condotti gli esperimenti. E poi l’altro elemento dettato dalla “mano degli operatori”, cioè al cambiare degli operatori cambiavano i risultati e questo creava una grandissima destabilizzazione nel risultato finale. Questa esperienza ci ha portato quindi a pensare un robot che fosse in grado di sistematizzare le operazioni di un processo anche in fase di ricerca e sviluppo. In realtà abbiamo guardato oltre, perché nel momento in cui la procedura era sistematizzata, abbiamo avuto l’idea – diventata cuore del brevetto – di introdurre un meccanismo innovativo di controllo e gestione dei parametri di processo in tempo reale, che abbiamo chiamato Matrix in batch Technology».
E come funziona?
«Questa tecnologia consente un passaggio velocissimo dalle fasi di ricerca e sviluppo alle fasi di messa in produzione per nuove molecole, con lo scopo di accelerare il trasferimento tecnologico. Rendere quindi più veloce l’immissione di nuove molecole sul mercato consentendo di accelerare il processo di miglioramento della qualità della vita delle persone a cui queste molecole sono deputate. Pensiamo ad esempio all’universo farmaceutico. Osservando l’innovazione introdotta da OnePot da un altro punto di vista, ci trovavamo nella condizione di avere un robot completamente automatizzato in grado di leggere centinaia di migliaia di dati sullo stato di avanzamento del processo e riprodurli. Ci abbiamo messo pochissimo a percepire le potenzialità elevatissime di introdurre logiche e algoritmi legati al mondo prettamente Software per coordinare tutte le funzionalità di OnePot. Questo ci consente, in maniera unica al mondo, di digitalizzare un intero processo chimico per renderlo rapidamente condivisibile, risolvendo uno dei problemi più grandi del settore dell’accademia. Mi spiego, un ricercatore scrive un articolo scientifico che descrive un processo chimico, poi un altro lo legge e cerca di replicare quel processo. Ma dal momento in cui inizia al momento in cui otterrà lo stesso risultato dell’autore ci vorranno almeno da due a sei mesi, se mai riuscirà a farlo. Un enorme perdita di tempo per il singolo ricercatore, ma se moltiplichiamo questi mesi persi per le migliaia di ricercatori che ci sono al mondo, vuol dire che ogni anno la scienza accumula decenni di tempo perso. Con OnePot, una volta che il processo chimico è stato digitalizzato, questo potrà essere condiviso come file con altri OnePot, ovunque nel mondo, che istantaneamente saranno in grado di riprodurre quel processo, analogamente a quanto oggi accade con le stampe 3D per la meccanica».
Ma a chi si rivolge, in particolare, questo progetto?
«Noi abbiamo sviluppato una tecnologia che consentisse di essere trasversale. Quando parliamo di chimica, parlare di “chi” è molto complesso. Questo perché tutto quello che vediamo intorno a noi nasce da un processo chimico. Il reattore OnePot che abbiamo sviluppato non ha dei limiti applicativi tecnologici e potenzialmente può compiere ogni tipologia di processo. Invece, ha sicuramente dei limiti in termini di volumi (il modello più piccolo consente di lavorare fino ad un massimo di 1 litro mentre il più grande fino a 5) quindi abbiamo deciso come prima strategia di ingresso sul mercato di rivolgerci a quelle industries che devono produrre molecole ad altissimo valore aggiunto e che dunque vengono prodotte in piccoli volumi. Le industries a cui puntiamo sono inizialmente la nutraceutica, la cosmetica e la farmaceutica. Successivamente abbiamo intenzione di estenderci verso il biotech, l’agroalimentare, la produzione di detergenti, estratti naturali e via dicendo. Ci rivolgiamo in questa prima fase ai settori di ricerca e sviluppo. Nel giro di un anno e mezzo contiamo di uscire con l’impianto più grande da 100 litri, che definisce la taglia più grande che intendiamo sviluppare. Infatti, sfruttando sempre la potenzialità legata alla tecnologia 5.0 da noi integrata, riusciamo a generare una rete infinita ed interconnessa di reattori. Ciò vuol dire che ogni reattore non lavora da solo, ma si integra con altri a valle e/o a monte. Questo permettere di innescare sia economie circolari – quindi sistemi ad anello in cui gli scarti di una parte di processo diventano materie prime seconde per un altro –, ma nello stesso modo anche di poter organizzare una produzione più massiva rispetto ai 100 litri. Immaginiamo una produzione da 10.000 litri. Al posto di avere un unico stabilimento in cui se c’è un guasto, nel migliore dei casi, si blocca tutta la produzione o, nel peggiore, si possono verificare incidenti dagli esiti nefasti, la stessa produzione da 10.000 litri viene fatta con 100 reattori da 100 litri che lavorano in parallelo, andando incontro alle logiche della process intensification. Questa strategia ha un impatto ambientale minore rispetto a quella tradizionale dei macro reattori e consente di applicare le logiche lean alle fasi di produzione del settore chimico, che oggi non possono essere nemmeno immaginate. Quindi noi ci rivolgiamo oggi al mondo R&D per entrare domani nella produzione, per rafforzare la catena esistente tra il mondo della ricerca e sviluppo, di altissima qualità in ambito accademico, e il mondo industriale della produzione».
Quali vantaggi consente alle aziende che decidono di adottarlo?
«I vantaggi sono su quattro fronti: tempo, costi, sicurezza e sostenibilità. Di tempo perché si contraggono sensibilmente i tempi di sviluppo e quindi l’immissione più veloce sul mercato di nuove molecole – nel caso di un gruppo di ricerca in ambito farmaceutico OnePot ha prodotto in 10 ore 316 ml di nanoparticelle di zeina, quando il ricercatore del gruppo addetto riusciva a farne 8 ml in 24 ore. Inoltre, essendo i processi digitalizzati, il passaggio di consegne da un ricercatore in uscita a quello in entrata è immediato, mentre ora servono mesi affinché il nuovo riesca a ottenere gli stessi risultati dell’uscente. I costi ridotti sono conseguenza dei tempi contratti: a parità di tempo – e quindi di salario – un ricercatore con OnePot è molto più produttivo rispetto a uno senza. Un’altra voce di risparmio è quella delle risorse utilizzate: meno errori significa meno reagenti inutilmente utilizzati. Sul fronte sicurezza, evitiamo che l’operatore venga a contatto con i reagenti e possa respirare fumi tossici, creando il reattore un ambiente sigillato da cui non esce nulla. Ultimo ma non ultimo, la sostenibilità: abbiamo già citato l’uso ridotto di reagenti necessari e l’assenza di emissioni; oltre a questi, la tecnologia innovativa di riscaldamento e miscelazione che abbiamo brevettato permette di ridurre i consumi fino al 92%».
È già possibile ottenere la macchina?
«Assolutamente sì, noi siamo sul mercato e abbiamo avviato la fase di produzione. A marzo abbiamo messo a terra il primo batch con le prime tre macchine e un altro lotto da quattro macchine è in run. Abbiamo già spedito ed avviato i primi progetti pilota con dei partners con i quali abbiamo stretto delle collaborazioni che consentono di validare la nostra tecnologia all’interno degli ambienti di lavoro dei nostri clienti. In realtà questa sperimentazione è stata già condotta e nelle nostre fasi di pilot attraverso la collaborazione con l’Università Magna Graecia di Catanzaro, nello specifico con il laboratorio del professor Antonio Procopio nel quale è stato installato un reattore. Inoltre, sono stati realizzati dei casi d’uso tra cui uno dei più impressionanti in termini di risultati ha riguardato la produzione di nanoparticelle di zeina grazie alla collaborazione con il laboratorio dei professori Massimo Fresta e Donato Cosco. La macchina è quindi disponibile alla consegna e sul sito può essere visualizzato sia il prezzo che richiede un contatto diretto con il nostro personale che provvederà a delle demo e a fare un invito diretto nella nostra sede a Catanzaro, per vedere la macchina all’opera, qualora questo fosse richiesto. Essendo questa una tecnologia innovativa, immaginiamo che i nostri clienti vorranno vedere in prima persona OnePot prima di ordinarlo».
Anche se è entrato dunque in produzione da poco, avete avuto riscontri positivi dal mercato?
«Sì, assolutamente. Ed è il motivo per cui dopo un primo piccolo lotto di produzione abbiamo avviato il secondo e già fatto partire gli ordini per il terzo».
Il tutto nasce da una startup calabrese, dunque è possibile puntare sull’innovazione anche in un territorio che riscontra ritardi proprio su questo terreno?
«La Calabria è fortissima a formare talenti – penso all’eccellenza dell’UniCal in fatto di ingegneria e dell’UMG per quanto riguarda, ad esempio, il dipartimento di chimica nell’interazione con il mondo biomedicale – ma sconta l’alto numero di questi talenti che se ne va, e il basso numero di cervelli in entrata da fuori. Se dunque bilanciamo questi due numeri, possiamo far fiorire l’innovazione in questo terreno di per sé estremamente fertile. E questo è proprio quello che stiamo provando a fare con Katakem: io non sono calabrese, mia moglie lo è, e abbiamo deciso di avviare questa avventura qui a Catanzaro. Il nostro responsabile Operations, Luca Grombone, è un ragazzo di Milano che si è trasferito a Catanzaro; il nostro responsabile Marketing, Lorenzo Di Cataldo, è di Milano.
Poi abbiamo invece il responsabile amministrativo, Francesco Monteforte, che è di Corigliano e il responsabile di Data Management, Francesco Esposito, nato e cresciuto in Calabria. Il resto del team è formato da quasi tutti calabresi. Alcuni hanno trovato in Katakem la possibilità di ritornare dall’estero e siamo felici di aver dato l’opportunità a qualcuno di riavvicinarsi alle proprie famiglie (sappiamo che questo, da italiani, è un punto importante della nostra vita). Detto ciò, andare in un’altra regione non rende automaticamente più semplice la fase esecutiva, il mettere a terra un progetto. Quello che fa la differenza è la capacità dell’ecosistema di sostenere l’innovazione con i capitali necessari, con gli investimenti che sono la vera benzina di ogni startup. Da romano devo dirmi entusiasta di come questo territorio abbia sostenuto la mia impresa: se in tre anni – pochissimo vista la complessità del progetto – siamo riusciti a passare da un’idea al prodotto finito, da 1 a 12 persone, devo sicuramente dire grazie alla Regione Calabria che ha investito 200mila euro a fondo perduto attraverso il programma “Talent Lab” (unica Regione italiana con questo tasso di investimento) e al Direttore Generale della BCC di Montepaone, il dottor Antonio Dodaro, per la sua visione illuminata che ci ha permesso di investire sul territorio acquistando gli spazi necessari a ospitare i nostri laboratori».
Ma quali sono state le principali difficoltà che avete riscontrato nel mettere in piedi il progetto?
«Sicuramente le difficoltà principali sono state proprio trovare il personale. Questo perché i talenti che vengono formati in Calabria non credono alla possibilità che su questo territorio si possano sviluppare realtà come Katakem. Infatti, il racconto è quello che in Calabria non si fa tecnologia, non si fa innovazione, non si valorizzano formazione e competenze. Quindi le nuove generazioni non credono che tu, come imprenditore, possa offrir loro una posizione per fare un lavoro altamente professionalizzante. Questi tre anni sono stati all’insegna del convincere giovani talenti – considerate che circa l’80% delle persone che lavorano in azienda è under 35 – che sì, si può vivere in Calabria e lavorare in una startup deep tech». (r.desanto@corrierecal.it)
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