CATANZARO È il 4 giugno 2015. Alle 9,45 gli agenti della Questura di Catanzaro arrivano in via Castel Fidardo, nel quartiere Aranceto. La segnalazione – colpi d’arma da fuoco – non promette niente di buono. La scena che si presenta loro è terribile: un uomo, raggiunto da diversi proiettili alla testa, giace al suolo. Basta poco per identificarlo: Domenico Bevilacqua, alias “Toro Seduto”, è un volto noto per gli investigatori. È considerato il “capo” dei rom. Quell’agguato può avere un solo movente: Bevilacqua stava cercando di “allargarsi” e qualcuno ha deciso di fermarlo. Il suo decesso viene dichiarato alle 10,55, dopo i primi soccorsi e il trasporto in ospedale. Otto anni dopo, l’inchiesta della Dda di Catanzaro che ha portato a decine di arresti nel cosiddetto “clan degli Zingari” fissa l’orizzonte di quell’omicidio anche grazie alle dichiarazioni dei pentiti.
Il «contesto di stampo mafioso squisitamente ‘ndranghetista», scrivono i pm antimafia nella richiesta di misure cautelari, era stato dedotto «sin dalle prime ore». La pistola rinvenuta accanto al cadavere e il legame con l’attentato subìto 10 anni prima dalla vittima non lasciano dubbi. Il nodo criminale è chiaro, «le mire espansionistiche della vittima di compiere attività illecite sul territorio di Catanzaro, già controllato e gestito dalla spietata cosca crotonese degli Arena di Isola Capo Rizzuto». Testimonianze e immagini estratte da una telecamera di sicurezza chiariscono la dinamica dell’agguato e ne dimostrano «la modalità mafiosa». “Toro Seduto” si trova vicino a un’edicola quando si avvicinano due killer a bordo di uno scooter. Il “capo” dei rom prova a rifugiarsi in un portone ma viene colpito prima di striscio al corpo e poi due volte alla testa. Finisce così il tentativo di espansione di Bevilacqua, considerato al vertice della comunità nomade al pari di Cosimino Abbruzzese “u Tubu”. I due erano considerati i referenti della cosca di ‘ndrangheta dei Gaglianesi «nella gestione delle attività illegali, soprattutto nella droga e nelle estorsioni nelle zone di Corvo, Germaneto e Catanzaro Lido, con il compito di ordinare agli accoliti nomadi di disciplinare e organizzare le loro attività delinquenziali». Bevilacqua, condannato per estorsione senza l’aggravante mafiosa, era stato rimesso in libertà nel 2012 anche per le precarie condizioni di salute.
È il pentito Santo Mirarchi a fornire – riassumono gli inquirenti – «informazioni sia in ordine ai presunti responsabili che al movente» di quell’omicidio. Mirarchi spiega che «Bevilacqua aveva delle mire espansionistiche sul territorio di Catanzaro, circostanze già emerse nelle pregresse attività investigative, certamente legate a delle ragioni economiche». “Toro Seduto”, «sebbene avesse considerato che il clan degli Zingari aveva sempre operato nel corso di oltre un decennio per conto delle cosche di ‘Ndrangheta crotonesi e catanzaresi, avrebbe voluto rendersi indipendente e poter agire in piena autonomia sul territorio di Catanzaro».
L’ipotesi degli investigatori è che il capo dei nomadi «fosse fermamente convinto di poter fronteggiare le cosche di ‘ndrangheta, contando sulla sua comunità etnica costituita da numerosi affiliati». Pronto alla guerra, si legge tra le righe, a differenza del suo pari grado Cosimino “u Tubu”, il quale «aveva compreso che non era il momento opportuno per ricevere una sorta di “autonomia” ad operare su Catanzaro». Era, infatti, «consapevole che fronteggiare le cosche di ‘ndrangheta in quel periodo storico era una scelta perdente, perché le cosche isolitane avevano una spiccata potenza militare con una vasta disponibilità di armi». Fu così che «dopo l’eliminazione fisica di Domenico Bevilacqua, come dichiarato dal collaboratore di giustizia, il numeroso gruppo delinquenziale degli Zingari si fermò, al punto che Mirarchi dovette intervenire per portare avanti le attività delittuose».
Il racconto del pentito abbraccia il periodo precedente l’omicidio. «“Toro Seduto” – racconta ai pm – già era arrivato lui in questi lavori, che noi andavamo a prendere… andavamo noi a prendere i soldi». Furono proprio Mirarchi e altri affiliati a sollevare la questione. «Noi gli avevamo accennato a Nico: “Vedi che c’è questa situazione, non si può andare là perché quello dice che è territorio di Toro Seduto“. E lui ha provveduto a sistemare la situazione con le famiglie di Crotone, ad eliminare “Toro Seduto”, in modo che c’era la piazza più libera, in modo che gli zingari stessero tutti quanti da parte. E così è stato». In effetti, spiega il collaboratore di giustizia, «dopo la morte di “Toro Seduto” tutti quanti si sono messi da parte. E abbiamo subentrato noi a fare tutti questi … questi lavori …. Omissis … E niente, hanno fatto questa eliminazione di “Toro Seduto”». Poi «si era un po’ ribellato, un po’, tra virgolette, ribellato Cosimino “u tubu”, però aveva capito che la situazione era molto pericolosa, che lui non poteva sostenere. Quindi giustamente lui si è ritirato, si è messo da parte direttamente perché sono più di cento persone loro, ha capito il problema che non guardano in faccia nessuno, quindi in automatico lui ha avuto anche paura allora e neanche usciva da casa». Fine delle mire espansionistiche e primo omicidio “eccellente” nel campo della criminalità rom. Il secondo sarebbe arrivato meno di due anni più tardi. (1. continua)
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