VIBO VALENTIA Occhiali da vista neri, barba incolta brizzolata e abbigliamento casual. Pasquale Bonavota, ultimo boss di ‘ndrangheta latitante catturato a Genova mentre pregava in Cattedrale, aveva cambiato look per rendere più difficile il lavoro dei carabinieri del Ros che da mesi erano sulle sue tracce. In effetti, le foto che gli hanno scattato i militari giovedì scorso, subito dopo la cattura, appaiono diverse da quelle diffuse in passato, quando la Dda di Catanzaro lo ricercava in tutta Italia dopo la sua fuga poco prima della maxi-retata Rinascita-Scott. Un cambiamento necessario; Bonavota sapeva di essere nel mirino. Ma non solo. I vicini di casa di Genova, dove si nascondeva probabilmente da tre anni, raccontano di come indossasse nel palazzo e in ascensore la mascherina con la scusa di «avere paura per il Covid».
Mentre continua la caccia ai fiancheggiatori del presunto boss, gli investigatori indagano sui rapporti tra Bonavota e sua moglie G.G., insegnante in una scuola del ponente di Genova. Secondo quanto riferito dal Secolo XIX la donna sarebbe stata prelevata dai militari dalla sua abitazione di Sampierdarena e sottoposta a un lungo e delicato interrogatorio nella caserma di Forte San Giuliano. I militari del nucleo investigativo di Genova, diretti dal colonnello Michele Lastella e dal maggiore Francesco Filippo, cercano di capire se la consorte abbia aiutato il boss durante questi anni di latitanza. Una circostanza che lei avrebbe negato con forza ai militari, spiegando di non sentire né parlare con il proprio marito da tempo. Su delega della Procura, intanto, un’accurata perquisizione è stata effettuata nell’abitazione della donna per cercare le tracce eventuali di un legame. Il materiale sequestrato sarà analizzato nelle prossime ore.
Così come si analizzano i dieci telefonini segreti trovati in possesso del boss di Sant’Onofrio. Smartphone e semplici apparecchi di vecchia generazione con schede intestate a presunti prestanome, che ora finiscono necessariamente nelle indagini dei carabinieri. Molti di questi sarebbero stranieri e avrebbero fornito i propri dati per le sim
card dopo essere stati agganciati da uomini della “rete” di protezione del boss, o direttamente da lui, in alcuni call center del centro storico genovese. Meccanismo semplice e collaudato: un po’ di denaro in cambio del necessario per attivare le schede. Alcune di queste persone sarebbero state individuate dai carabinieri e messe sotto controllo per confermare la riconducibilità ai movimenti del capoclan. Secondo quanto trapela, l’operazione di giovedì sarebbe arrivata proprio grazie a uno di questi apparecchi. Bonavota lo avrebbe azionato all’interno della cattedrale di San Lorenzo, offrendo agli investigatori la prova che si trovasse in chiesa.
Sarebbe scattato grazie a questo “errore” il blitz che ha portato all’arresto. Mentre veniva accompagnato in caserma, Bonavota si sarebbe anche lasciato andare ad alcune dichiarazioni, sostenendo di non essere più il criminale pericoloso che gli inquirenti di tutta Italia sostengono lui sia: «Sono tra i primi ricercati nella lista – avrebbe spiegato, sempre secondo quanto riportato dal Secolo XIX – ma pago gli errori fatti in gioventù. Ora sono una persona diversa, più tranquilla». (ppp)
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