REGGIO CALABRIA Tre indagini sulle famiglie di ‘ndrangheta di San Luca, la cattura di un latitante e una caccia al tesoro dei clan che attiva investigatori in mezzo mondo. Iniziamo dal latitante: è Antonio Callipari, sfuggito a un’ordinanza di custodia cautelare del Tribunale di Milano. Nell’operazione “Dedalo”, Callipari era accusato di essere uno dei capi di un’associazione armata dedita al traffico illecito di cocaina. Si nasconde nell’abitazione di due donne che di cognome fanno Strangio e Nirta: viene catturato il 9 novembre 2018. Le indagini sul presunto narcotrafficante non si fermano qui e avrebbero «permesso di accertare che operava, anche nel successivo periodo di detenzione» nel sistema della famiglia Nirta “Versu” di San Luca. Il capo del clan dedito al traffico di stupefacenti sarebbe Stefano Nirta – fratello di Giovanni Luca, scarcerato nel 2019 dopo una lunga detenzione per il coinvolgimento nel procedimento “Fehida” –, in rapporti con i Giampaolo “Russello” di San Luca «in relazione all’investimento in Germania nella gelateria denominata “Bellitalia”» nella cittadina di Saarlouis. La Germania ritorna spesso nell’inchiesta Eureka della Dda di Reggio Calabria: è lì che una parte dei proventi della cocaina viene reinvestita e “ripulita”. I magistrati antimafia coordinati dal procuratore Giovanni Bombardieri e dall’aggiunto Giuseppe Lombardo descrivono i meccanismi di riciclaggio del denaro sporco e le infiltrazioni in Nord Europa.
Nel mese di giugno 2019, dopo le prime interlocuzioni della Procura federale di Bruxelles, inizia il supporto della Dda calabrese a un agente belga che lavora sotto copertura e «che era riuscito ad infiltrarsi nell’area del Limburgo tra soggetti originari della Calabria operanti, da anni, in Belgio, e contigui per parentela alla famiglia Strangio “Fracascia” di San Luca». È questo agente a svelare il metodo di comunicazione degli indagati, che interagivano «esclusivamente via chat, mentre mentre le stesse schede telefoniche – appunta il gip – non generavano alcun traffico telefonico o sms, così evitando, salvi alcuni casi, ogni possibile tracciamento mediante l’acquisizione dei relativi tabulati». Nonostante questi accorgimenti e l’utilizzo di “criptofonini”, «i contenuti delle chat sono stati disvelati in quanto alcune autorità e polizie giudiziarie straniere (in particolare olandesi, belghe e francesi) hanno “violato” i server ove venivano memorizzate le conversazioni, acquisendo i dati contenuti».
Dall’analisi delle chat, gli investigatori sono riusciti ad «accertare l’operatività» di tre diverse associazioni, con base a San Luca e Bovalino, tutte «dedite al traffico internazionale di stupefacenti» e «collegate alle più potenti famiglie di ‘ndrangheta che controllano quel territorio». La prima è «riferibile alla famiglia Nirta “Versu”», ha una propaggine in Brasile con a capo il latitante Vincenzo Pasquino, arrestato nel maggio 2020 assieme a Rocco Morabito, il “Tamunga”. È questa la base per aprire nuovi canali di approvvigionamento di cocaina dal Sudamerica. Secondo anello della catena: la famiglia Mammoliti “Fischiante” di Bovalino, con «articolazioni» in Calabria, Abruzzo, Lazio, Toscana e Lombardia, «in diretti contatti con i fornitori sudamericani della cocaina e con trafficanti internazionali come Denis Matoshi, attualmente latitante a Dubai». Il terzo clan di narcos fa capo alla famiglia Strangio “Fracascia” di San Luca, «tra le cui fila operano stabilmente esponenti delle cosche di ‘ndrangheta dei Nirta “Versu” e degli Strangio “Janchi”, coinvolte nella strage di Duisburg dell’agosto 2007, nonché delle famiglie dei Giampaolo “Nardo”, Giorgi “Suppera”, dei cosiddetti “Tranca”». Questa associazione, secondo l’accusa, «si caratterizza per avere stabili articolazioni in Belgio (nella città di Genk), Germania (a Monaco di Baviera), Spagna (tramite Antonio Fausto Palumbo) e Australia (in Canberra), tutte facenti capo alla comune base in San Luca».
È la filiera dei narcos della ‘ndrangheta, capace di muovere «ingenti carichi di cocaina giunti dal Sudamerica via nave». Rotte consolidate: da Colombia, Panama, Brasile ed Ecuador si arriva nei porti di Gioia Tauro, Anversa e Rotterdam, dove le organizzazioni possono contare su «solidi e stabili rapporti con operatori portuali corrotti». Una caratteristica che «costituisce un punto di forza» capace di accreditare i clan calabresi «presso i fornitori sudamericani».
C’è «un dato ricorrente» nel sistema che la sua base nella Locride. Le cosche utilizzano due modalità alternative per i loro traffici. La prima: possono finanziare le importazioni dal Sudamerica, «acquistando la cocaina al prezzo di circa 7000 dollari al kg, con possibilità di rivenderla in Italia senza vincoli di prezzi (in tal caso lo stupefacente viene pagato prima della spedizione)». La seconda: possono «occuparsi della esfiltrazione e commercializzazione in Italia della cocaina per conto dei fornitori sudamericani». Con questi «viene pattuito un prezzo minimo di vendita al chilogrammo, i cui profitti vengono velocemente ritrasferiti oltre oceano attraverso delle organizzazioni criminali composte da soggetti di origine cinese». In questo caso «i profitti illeciti vengono trasferiti dopo la commercializzazione e il guadagno delle organizzazioni italiane è costituito dal maggior prezzo di vendita che riescono ad ottenere».
L’inchiesta ha documentato da maggio 2020 a gennaio 2022, diverse importazioni «da Colombia, Brasile e Panama verso l’Italia, Belgio e Regno dei Paesi Bassi». Oltre 4mila chili di cocaina, di cui 2.060 sequestrati a Gioia Tauro, Anversa e Colon, «a cui si aggiungono ulteriori tentativi di importazione, alcune delle quali anche finanziate». Da agosto 2020 a maggio 2021, gli investigatori sono poi riusciti a documentare il trasferimento in contanti di 22,3 milioni di euro «dalla Calabria destinate a Panama, Colombia, Brasile e Ecuador, talvolta tramite Belgio e Olanda». Denari spostati «tramite le collaudate organizzazioni di origine cinese». È il denaro “di ritorno”, dovuto dalla ‘ndrangheta ai fornitori sudamericani.
Altro canale sudamericano sarebbe quello documentato dalla «cooperazione» di Lucio Aquino, presunto capo di uno dei clan di narcos, «con esponenti di vertice del “Clan del Golfo”, organizzazione paramilitare operante in Colombia (distretto di Antioquia), guidata da Dairo Antonio Usuga, meglio noto come Otoniel (arrestato in Colombia in data 23.10.2021), che raggruppa elementi delle disciolte Auc (Autodefensas Unidad de Colombia)». Sono «organizzazioni paramilitari (narco-terroristiche) che, dopo la caduta degli storici cartelli di Medellin e Cali, hanno assunto il controllo del mercato della cocaina colombiana, diventando i maggiori produttori». Tanto per contestualizzare, Lucio Aquino è stato arrestato, assieme ad altre 40 persone, dalla Polizia federale del Limburgo, «poiché ritenuto direttamente coinvolto nell’importazione di 6,9 tonnellate di cocaina sequestrate al porto di Anversa il 28 ottobre 2019».
È un pezzo della caccia al tesoro globale dei clan quello raccontato nell’inchiesta “Eureka”. Nel risiko c’è un ultimo passaggio che riporta il sistema a operare in Europa. L’ipotesi investigativa è che «parte dei proventi illeciti» sia stata impiegata «per l’apertura di attività commerciali in Francia (a Mentone) e Germania (Saarlouis e Siegen), nonché per l’acquisto di autovetture e beni di valore». Ristoranti, gelaterie: tutto serve per ripulire il denaro che arriva dal narcotraffico. Ci sono, in particolare, tre società di Monaco di Baviera, «aventi a oggetto attività di autolavaggio» utilizzate per ricevere parte dei proventi illeciti «presenti in una cassaforte a San Luca» e farli figurare come ricavi fittizi. Denaro sporco in arrivo dalla Calabria profonda “ripulito” grazie al lavaggio delle auto in Germania. Non è la trama di un film, accade ogni giorno. (p.petrasso@corrierecal.it)
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