Moncalieri, 56.000 abitanti, così vicina e legata a Torino come città del Proclama di Vittorio Emanuele II e sede del magnifico Castello sabaudo, è luogo che convive con la criminalità. Scriveva dieci anni fa il giornalista d’inchiesta Claudio Cordova che è «un feudo della ‘ndrangheta».
Quinto comune del Piemonte per popolazione, sembra un quadro di Monet a vederne la fioritura dei papaveri rossi sui social nelle sue campagne.
Luogo ameno nel centro storico e con i suoi palazzi storici, rifugio di molti calciatori, qui ha vissuto, nella villa degli Ovazza, John Elkann prima di sposarsi.
La ‘ndrangheta sta altrove. Per esempio a Borgo San Pietro, ventimila residenti, case in cemento molto diverse delle ville dei piemontesi blasonati. Luoghi di emigrazione calabrese. Nell’archivio della Stampa del 1949, il giornalista Mimmo Logozzo ha ritrovato la storia di due fratelli di Gioiosa Jonica di 14 e 15 anni svenuti per la fame nei pressi di Moncalieri. Una storia da cinema neorealista di un viaggio a piedi alla ricerca di uno zio che doveva farli lavorare. Nel tempo le questioni si sono modificate.
Nel 2009 la polizia ritrova sei fucili rubati e munizioni in una villetta per metà di proprietà di un calabrese, ex assessore comunale, mai indagato per quel fatto. Il caso Moncalieri arriverà in Commissione Antimafia, e il presidente Beppe Lumia parlerà di infiltrazione di ‘ndrangheta nei settori dell’urbanistica e del movimento terra.
“Locale” instabile e di difficile catalogazione, quello di Moncalieri. Un pentito dell’operazione Minotauro lo definisce “gruppo di base” o “Società”. Nelle mappe non ancora digitalizzate del 2011 si legge «attivato dagli Ursino di Gioiosa Ionica e formato da personaggi delle ‘ndrine Ursino-Scali di Gioiosa Ionica ed Aquino-Coluccio di Marina di Gioiosa Ionica», lo stesso paese dei ragazzini svenuti per fame nel dopoguerra.
Nei bar sviluppano la loro azione di reclutamento e di azione. Il bar Smile, in via Battisti a Moncalieri, era intestato alla moglie di uno degli arrestati nel blitz di “Minotauro”, il marito risultava impiegato. Un bar in zona l’aveva aperto anche Pasquale Bonavota, il latitante arrestato a Genova qualche settimana fa.
È segnalato come affiliato di Moncalieri anche il calabrese Rocco Schirripa. Nelle foto segnaletiche degli anni Settanta ha capelli neri fluenti e camicia con colletto ampio e somma nel casellario giudiziario condanne per gioco d’azzardo, un tentato omicidio, un furto e una rissa. Farà carriera considerato che sua figlia doveva sposare Vincenzo Rocco Ursini, nipote prediletto del boss di alto lignaggio Mario. Un matrimonio mai celebrato per il fatto che il giovane picciotto del celebre casato nell’aprile del 2009 sparisce lasciando solo la sua Alfa 164 incustodita in un parcheggio di Mappano. Pentiti e intercettazioni ricostruiranno i probabili contesti di un omicidio mafioso.
Rocco Schirripa, mancato suocero degli Ursini, ricomparirà nel 2015 nelle foto di cronaca, calvo e invecchiato nel moderno colore delle foto segnaletiche in anni recenti coinvolto nell’episodio più grave della ‘ndrangheta calabrese a Torino, e per lungo tempo seppellito nelle coltri dell’oblio.
Bruno Caccia, procuratore della Repubblica di Torino, nel 1983 ha 66 anni. Si è brillantemente occupato di eversione, piccola e grande criminalità e reati contro la pubblica amministrazione. Discende da una famiglia patrizia che ha dato molti magistrati allo Stato. Ha la toga addosso dal lontano 1941. Sempre in Piemonte come pubblico accusatore. L’unico sconfinamento lo ha fatto nella vicina Aosta, dove ha ricoperto il ruolo di procuratore della Repubblica. È il magistrato che ha dato dottrina, formazione e mestiere a Gian Carlo Caselli. Bruno Caccia è un piemontese tutto d’un pezzo che non si piega. Si sta occupando con determinazione di un fenomeno che non ha titoli e attenzioni dei giornali. La ‘ndrangheta. Torino è la città con più calabresi d’Italia. Sono arrivati con i Treni del Sole e le valige di cartone ai tempi del boom. La gran parte sono brave persone che hanno contribuito alla crescita economica della capitale dell’industria italiana. Ma da Gioiosa Jonica, Siderno, Gioia Tauro sono arrivate anche famiglie che hanno codici e rituali antichi. Che hanno rimodellato su abitudini metropolitane per conquistare le ricchezze del Nord. Sono tribù spietate. Godono dell’impunità che si conquista con il colore dei soldi. Controllano magistrati e hanno alleati insospettabili con le scarpe lucide e che quando salutano pronunciano “Cerea” in piemontese. Il procuratore Caccia è per loro un pericolo serio. Si è messo di traverso ad una nuova emergenza. Ma l’opinione pubblica nazionale di questo fenomeno non conosce nulla.
Il 28 giugno del 1983 il magistrato ha lasciato libera la sua scorta. Errore fatale. Porta a passeggio il cane di famiglia, quando due killer esplodono 13 colpi per poi finirlo con altri tre. Il caso Caccia sarà lungo e tormentato. Le prime indagini s’indirizzano contro la lotta armata di sinistra. Poi finalmente si arriva nel corso del tempo alla ‘ndrangheta.
Ci vuole l’imbeccata di un mafioso catanese ai servizi segreti per arrivare al mandante del delitto, il boss Domenico Belfiore uno dei capi della ‘ndrangheta a Torino. Dei killer ancora nessuna traccia. Nel dicembre del 2015 la svolta. Costruita da uno stratagemma del pm Ilda Boccassini, titolare dell’inchiesta. Venne spedita a uomini dei clan una lettera anonima con una fotocopia di un articolo dedicato alla morte di Caccia con su scritto il nome a penna del presunto killer, Rocco Schirripa. I compari abboccano e intercettati si mettono a discutere su chi ha tradito e su chi sa. Schirripa ha 67 anni, ha aperto una panetteria a Torino dopo aver scontato venti mesi di carcere per “Minotauro”. Si proclama innocente. Tutti gli indizi combaciano nell’indicarlo come l’uomo che guidava l’auto del commando in quella notte del 1983, e il gioiosano, pur non avendo sparato, è stato condannato nel 2020 all’ergastolo con sentenza definitiva.
Un tassello celebre della ‘ndrangheta di Moncalieri. Nel 2015, sei mesi prima della svolta del giallo Caccia, esplode un caso politico nel comune della Reggia. In Comune come primo dei non eletti, diventa consigliere Mario Nesci, imprenditore edile originario di Ciminà nella Locride, paese d’origine dove ha svolto il ruolo di assessore e presidente del consiglio comunale, ma la questione che rimbalza nel dibattito locale è legata al fatto che un suo parente, Nicola, è coinvolto in un’inchiesta di massomafia. Sospetti e intercettazioni aprono polemiche di non poco conto considerato che Nicola subisce una dura condanna di primo grado e viene ritenuto capo della “corona”. Rullano i tamburi i Cinquestelle locali allora in ascesa e visto che Mario Nesci è presidente della Commissione Legalità ritengono “inopportuno” quel ruolo per l’imprenditore calabrese. Mario Nesci non è neanche indagato però. Delle telefonate e una parentela non impediscono di concludere il suo mandato.
Storie controverse di ‘ndrangheta. Nel gennaio 2022 due persone vengono fermate dalla polizia all’uscita di un palazzo a Moncalieri. Nel loro appartamento droga e armi. In un’altra base a Nichelino si scopre un tesoro di gioielli e Rolex in un nascondiglio posto in un’intercapedine. Tutto fa capo a Vittorio Raso, detto “l’esaurito”, narcotrafficante arrestato in Spagna, poi sfuggito alla legge, ripreso ed estradato. Ora è un collaboratore di giustizia. Magari spiega come funziona la ‘ndrangheta a Moncalieri. (redazione@corrierecal.it)
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