Cinque mesi fa scrissi una lettera aperta a Marcello Manna chiedendogli di dimettersi da sindaco di Rende. Sapevo chiaramente che questo appello sarebbe rimasto inascoltato. E so altrettanto perfettamente che fargliene uno adesso, sarebbe perfettamente inutile. Ho collaborato un mese nella mia vita con Marcello. Mi chiamò privatamente nel maggio del 2019 in campagna elettorale, gli curai la comunicazione, vinse e finirono i nostri rapporti professionali.
Quelli amicali sono sempre continuati apprezzando il garbo di una reciprocità cordiale che non mi esime dal considerare agghiacciante ciò che accade nel comune che è stato (per merito della lucida follia dei Principe) il più importante della Calabria e che oggi rischia di passare alle armi alla stregua di un oscuro comune siciliano degli anni Ottanta.
Marcello Manna fu scelto da Jole Santelli il 2014 per costruire un’alleanza con il Pd che portasse a sconfiggere Sandro Principe. Jole aveva da sempre un debole, forse eccessivo, per una corrente giuridica di sinistra ma sapeva, intelligentemente, che per vincere a Rende ci voleva un progetto civico. Quel progetto è miseramente fallito e riproporlo, se si dovesse rivotare a Rende, sarebbe impossibile.
Dal 1 settembre ad oggi Manna è stato sospeso quattro volte. Con quattro sindaci facente funzioni diversi e una messinscena tipica dei quartieri spagnoli con il ritiro delle dimissioni del vice sindaco alle 7 di mattina dello stesso giorno in cui il sindaco veniva arrestato.
Di quella marmellata politica facevano parte partiti di centrodestra e lo stesso Pd, più settori della sinistra estrema ed esponenti come la figlia del compianto Tommaso Sorrentino e l’ex moglie di Franco Piperno (la docente universitaria Marta Petrusewicz, ndr) che oggi è l’ultimo dei facente funzioni.
Nemmeno negli ultimi giorni di Salò c’era una confusione di ruoli tale. Eppure, ancora adesso, Manna parla di Psc. Parla di assumere dirigenti con procedure probabilmente illegittime. Sembra incredibilmente non accorgersi di una crisi che va anche oltre le tante vicende giudiziarie incombenti.
Ha scritto che non si dimetterà perché la città merita l’approvazione del Piano regolatore ché è un atto che presuppone la presenza di una forte legittimazione politica.
Arrivare a quattro sospensioni e approvare il piano regolatore e l’assunzione di dirigenti mentre il Governo potrebbe sciogliere il comune per mafia, dopo avere fatto anche un rimpasto (!) significa non avere alcuna consapevolezza della situazione esistente.
Sono certo che il Comune impugnerà l’eventuale scioglimento sino al Consiglio di Stato.
In altri tempi, quando i partiti erano una cosa seria, tutto ciò sarebbe stato impedito. Oggi, invece, una curiosa letargia contamina partiti (compresi i Cinquestelle bravi ad agitarsi per cose molto tenui), sindacati, società civile. Ci si chiede dove sia l’università e cosa faccia per reclamare il ritorno di un’ agibilità democratica inesistente.
La città sede della prima università della Calabria, divenuta un’eccellenza del Sud, accetta di essere considerata come un comune reggino di fine anni ottanta senza battere ciglio.
Sandro Principe ha vissuto un lungo calvario che ne ha condizionato certamente la reattività ma anche il suo silenzio grida.
Rende rischia di essere commissariata per mafia in una indifferenza moraviana che non assolve nessuno.
Perché qui non è in gioco il diritto sacrosanto alla presunzione di innocenza di Manna ma la lettura strumentale di una persecuzione giudiziaria che non ha senso e razionalità.
Nemmeno citare Leonardo Sciascia è cosa saggia. Se ai postcomunisti fosse rimasta un po’ di memoria storica ricorderebbero che ad Arcavacata si collaborava con Pio La Torre e che quella magistrale relazione di minoranza che il deputato ucciso dalla mafia scrisse nel ’79 raccontava ben oltre il rapporto stesso tra stato e mafia nel Sud. E Sciascia ne era entusiasta.
Accompagnare con una lenta eutanasia Rende alla morte civile è di per sé colpevole. Lo è per Manna, che poteva mettere fine mesi fa a questa simbiosi, lo è per chi vuole la città unica ma non sa esprimersi in materia e per chi nasconde le sue viltà dietro un garantismo poco credibile.
La critica politica non coincide con una colpevolezza automatica sul piano giudiziario. È possibile, auspicabile, che Marcello Manna possa un giorno uscire pulito da tutte le inchieste in corso ma ciò non c’entra con un’esperienza civica che aveva una sua contingenza e che ha mostrato i suoi limiti.
Da anni si chiede alla politica di separare realmente le sue funzioni da quelle giudiziarie, di intervenire concretamente sulla custodia cautelare, di rivedere anche l’utilità della legge Severino (passata indenne da un referendum) così come si chiede alla stampa di non partecipare alla lapidazione preventiva di indagati e condannati provvisoriamente.
Ma tutto questo non può giustificare la pervicacia di voler rimanere ad ogni costo al proprio posto come accade con il sindaco sospeso.
Se ai partiti che lo sostengono, e dovremmo capire chi siano oggi, non va bene la legge Severino (che a me non piace affatto) avrebbero fatto bene a cancellarla prima in Parlamento.
Conoscendo le consolidate tradizioni italiane è presumibile che tra qualche settimana, se arriverà lo scioglimento, nessuno dei partiti di maggioranza o dei politici che appoggiano Manna si ricordi della sua esistenza. Però gli elettori non sono completamente privi di memoria.
Questi non sono i luoghi per discutere della innocenza o colpevolezza del sindaco di Rende sul piano strettamente penale. Nemmeno se il Governo scioglierà Rende Manna sarà automaticamente colpevole.
Né servirà parlare dopo perché questo avrebbe sì un senso di sciacallaggio politico.
Non si facciano paragoni di blasfemia con Giacomo Mancini e le angherie sopportate negli anni Novanta, né si tenti di propugnare l’assurdità di complotti inesistenti.
Mancini indicò nettamente i mandanti politici dell’operazione di Reggio Calabria e aveva una storia personale che gli consentiva di poter immaginare che tutto ciò che gli stava capitando potesse essere la coda di una stagione di autentica persecuzione dei socialisti. Mancini veniva accusato da Pino Scriva di avere fatto saltare ponti (!) e di altre amenità che apparivano assurde e infondate.
Nessuno vuole sottrarre Rende a Manna per il semplice fatto che non le appartiene. Ma Manna stesso avrebbe il dovere di fare nomi e cognomi di quanti avrebbero orchestrato una regia difficilmente accettabile razionalmente.
Perché si tratta di tre procure diverse (Salerno, Cosenza e Dda di Catanzaro) e con tutto il rispetto possibile Rende non è il centro del mondo. A meno che non ci siano cose che non sappiamo e che il sindaco sospeso dovrebbe spiegarci per poter capire meglio e fare un’analisi compiuta.
La cosa migliore proprio per salvaguardare la città e separare i giudizi politici da quelli penali sarebbe stata chiudere questa esperienza tempo fa.
Perché è finito il senso politico di quella operazione. Perché i cittadini non vogliono più simboli civici nelle città ma legittimamente invocano le appartenenze politiche.
Rende si identifica come comunità con chi vorrebbe evitare l’onta di uno scioglimento per mafia e la pena di un governo cittadino in cui ogni giorno cambiano i caporali.
Continuare a fare finta che nulla sia accaduto apre spazi all’antipolitica e legittima paradossalmente i forcaioli. L’augurio davvero è che non ci siano le condizioni per uno scioglimento traumatico del consiglio comunale. Il silenzio generale, invece, serve a poco. È solo la resa della politica.
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