LAMEZIA TERME Una cosca di ‘ndrangheta che, nonostante i duri colpi inferti dalle operazioni di polizia e dalle sentenze, ha mantenuto la propria esistenza ed operatività sul territorio, continuando ad opprimere il tessuto sociale ed economico in Piemonte, tra Ivrea e Chivasso, toccando anche le zone limitrofe. Tutti dettagli emersi dall’operazione “Cagliostro” eseguita dai carabinieri del comando provinciale di Torino, su richiesta della Dda. Il pm avevo chiesto il carcere per 35 persone ma, il gip Rosanna Croce, lo ha disposto soltanto per nove di loro: Domenico Alvaro (cl. ’77); Francesco Belfiore (cl. ’73); Giuseppe Belfiore (cl. ’56); Aniello Maurizio Buondonno (cl. ’68); Flavio Carta (cl. ’74); Antonino Mammoliti (cl. ’65); Stefano Marino (cl. ’61); Piero Speranza (cl. ’60) e Francesco Vavalà (cl. ’55), tutti considerati appartenenti alla ‘ndrina degli Alvaro, discenti dei “Carni i cani” di Sinopoli.
Un blitz eseguito sulla scorta del filone investigativo portato avanti dagli uomini del Reparto Operativo Nucleo Investigativo del Comando Provinciale di Torino i cui esiti hanno consentito di riaffermare l’esistenza e l’operatività nell’area piemontese, del dominio mafioso delle cosche di ndrangheta, riproducendo lo schema e le modalità operative della ndrangheta della Provincia reggina. L’indagine ha di nuovo acceso i riflettori su uno spaccato di criminalità organizzata che, da queste parti, si traduce nel dominio quasi del tutto incontrastato di Domenico Alvaro, classe 1977 tra gli arrestati e figlio di Carmine Alvaro, classe 1953, noto come “u cupirtuni”, dei cui proventi delle attività delittuose del sodalizio si sarebbero avvantaggiati i singoli affiliati alla cosca, diretta emanazione di quella calabrese.
Quella degli Alvaro in Piemonte è una storia che parte da molto lontano. Intrecci tra territorio e affari criminali che sono già stati ricostruiti (e sanciti) da sentenze già passate in giudicato. Una delle originarie è stata emessa al termine del processo “Prima”, divenuta irrevocabile il 7 febbraio del 2003, con la condanna sia di Domenico Alvaro (cl. ’77) che Carmine Alvaro (cl. ’53). Un procedimento che, per la prima volta, ha consentito di ricostruire l’apparato della potente cosca di ‘ndrangheta. Nonostante quella degli Alvaro fosse una famiglia di notevole spessore criminale e nota da molto da tempo nell’ambiente della criminalità organizzata, fino a quel momento non era stata ancora scalfita da alcuna indagine giudiziaria, ma solo attraverso processi che hanno interessato singolo soggetti, traffico di droga e sequestri di persona, comunque riconducibili agli Alvaro. Eppure, storicamente, quella degli Alvaro è stata una consorteria organizzata e strutturala a base quasi esclusivamente familiare, il vero elemento di forza, anche se non risultava costituita da un’unica cellula mafiosa facente capo a Carmine Alvaro (cl. ’53) e a Domenico Alvaro (cl. ’24), a cui doveva aggiungersi anche Giuseppe Alvaro (cl. ‘43), ma era suddivisa in vari ceppi familiari omonimi quali, a loro volta, si articolavano in due grandi sottogruppi o “ceppi”.
Il ceppo più importante, numeroso ed avente un ruolo di guida, è quello denominato “Carni i cani” facente capo all’indagato Carmine Alvaro (cl.’53) noto come “Cupertuni” e al fratello Giuseppe (cl. ’43) detto “Trappitaru”, con i relativi discendenti. Fanno parte di questo ceppo anche i fratelli Antonio “Catella” Alvaro (cl. ’61), e Raffaele (cl. ’65) detto “Paghiazza”. Altro ceppo della famiglia Alvaro è quello dei “Paiechi” composto dai fratelli Rocco (cl. ’38) detto “Roccu u paiecu” e Domenico (cl. ’43) detto “u camposantaru” o anche “u paiecu”. E poi quello dei “Merri” riconducibile a Francesco Alvaro (cl. ’39) noto come “u merru” o “u russu” e quello dei “Pallunari” il cui capostipite era Carmine Alvaro (cl. ’26), padre dell’imputato Paolo Alvaro (cl. ’46) detto “u pallunaru”. La sorella di quest’ultimo, Grazia Alvaro (cl. ’40), è coniugata con il capo cosca Domenico Alvaro (cl. ’24) noto come “don Micu”, “Giannazzu” o “Massaru Micu”. E, infine, c’è il ceppo dei “Testazza” o “Cudalonga” cui fanno capo gli imputati Antonio Alvaro (cl. ’37) noto come “Testazza” “cudalonga” o anche “Massaru N’toni” e il fratello Nicola (cl. ’27) noto come “u beccausu”. Così come ricostruito nelle varie indagini, l’organizzazione del clan Alvaro si articolava in un gruppo principale con sede operativa a Sinopoli e composto da diverse cellule facenti capo ai ceppi familiari gravitanti attorno alla famiglia dei “Carni i cani”. Ed un gruppo minoritario attivo a Cosoleto-Sitizzano facente capo ai due fratelli “Testazza” Antonio e Nicola Alvaro e, più recentemente, ad Antonio Carzo. Le conflittualità e i contrasti tra i vari ceppi non hanno mai minato l’unità della ‘ndrina in nome di una logica accettata da tutti e secondo la quale, grazie ad un senso di orgoglio per appartenere alla stessa famiglia ‘ndranghetista, ogni questione è stata risolta senza estreme conseguenze, ma all’interno della stessa famiglia.
A rafforzare ulteriormente gli elementi investigativi sull’esistenza della cosca Alvaro sono stati anche i contributi dei collaboratori di giustizia Francesco Fonti e Pietro Gioffré, quest’ultimo ucciso a colpi d’arma da fuoco nei pressi della Tonnara di Palmi. «(…) solo la famiglia Alvaro di Sinopoli, particolarmente potente tanto da poter disporre di killer a pagamento, mise a disposizione alcuni dei suoi uomini per operazioni delittuose in danno sia al gruppo degli Imertiani, sia in danno al gruppo dei Destefaniani. A mio avviso sto parlando della famiglia più potente di Italia (…) tra le attività della famiglia Alvaro vi è sicuramente quella della coltivazione di piantagioni di canapa indiana». «Gli Alvaro sono la famiglia mafiosa più potente, più diramata a livello nazionale ed internazionale tra le più efferate». A dirlo è stato invece Simone Canale, altro collaboratore di giustizia, nel corso del processo “Iris” che, nel troncone abbreviato, ha visto la condanna a 16 anni e 8 mesi di carcere per Domenico Alvaro (cl. ’77), riformata a 14 anni in Appello. Il collaboratore riferisce che alcuni affiliati erano «contrari al traffico degli stupefacenti anche se la cosca Alvaro nel suo insieme vi traffica attivamente (…) gli Alvaro ammazzano per nulla, sono animali. Ammazzano e si siedono a mangiare (…) capii che presa questa strada non sarei più potuto tornare indietro. Ammazzare per gli Alvaro è ordinaria amministrazione».
C’è anche il pentito di ‘ndrangheta Andrea Mantella tra chi, negli anni, ha puntato il dito contro la cosca Alvaro. Come lui stesso ha raccontato, i primi contatti con il clan di Sinopoli sarebbe avvenuto durante un periodo di comune detenzione presso la struttura penitenziaria di Torino. «Domenico Alvaro, durante la comune detenzione, mi disse che Rocco Molè si doleva del comportamento dei Piromalli e che stava elaborando progetti scissionisti e comunque espansionistici nel panorama criminale gioiese. Alvaro Domenico l’ho conosciuto nel carcere Lo Russo Cotugno a Torino. Ricordo che mi disse che suo padre aveva il “comando assoluto”. Mi disse che il padre non approvava il vecchio “mandamento” ed era più “azionista” rispetto agli altri Alvaro. Aggiunse che era andato in contrasto con gli altri zii che invece erano in affari coi Piromalli sul porto di Gioia Tauro». «Sono a conoscenza del fatto che Paolino Lo Bianco trafficava in droga con Francesco Alvaro (cugino di Peppe Alvaro, figlio di Don Mico “u scagghiuni”) e con Domenico Alvaro. Io ero presente alle reciproche consegne di stupefacenti». (g.curcio@corrierecal.it)
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