VIBO VALENTIA Il procuratore di Vibo Valentia Camillo Falvo spiega a “La Stampa” com’è la “vita anormale” dei magistrati in Calabria. «Non andare a pranzo fuori dall’ufficio, non frequentare feste, verificare il casellario giudiziale di chi ci affitta la casa o del proprietario della pizzeria dove andiamo la sera, peraltro in compagnia solo di colleghi. Siamo qui, in un posto di frontiera. Capisco che nessuno voglia venire, come i medici al Pronto soccorso». È una delle tappe del servizio che racconta le esperienze dei giudici ragazzini a Vibo Valentia.
I neo magistrati in trincea nei maxi processi per ‘ndrangheta, in un territorio che conta una ventina di cosche su 120mila abitanti. Per “La Stampa” «i giudici anziani, o semplicemente maturi, se ne stanno alla larga dalla Calabria. I bandi del Csm per i trasferimenti volontari finiscono regolarmente deserti, anche se incentivati con bonus da 1.600 euro al mese».
Altra tappa del racconto: Ilario Nasso è un giudice del lavoro, «decano» del Tribunale di Vibo anche se ha soltanto 36 anni. È tornato in Calabria (è di Taurianova) dopo un master a Bologna. Trentesimo in graduatoria su 350, poteva scegliere di andare ovunque ma voleva diventare giudice del lavoro e l’unico posto era a Vibo, vacante da due anni. «Quando sono arrivato in ufficio, nel 2017, ho trovato una situazione disperante», spiega a “La Stampa”. Duemila processi non trattati, 1.300 nuovi fascicoli ogni anno. Nel 2022 ha scritto 832 sentenze.
La sua serietà non è piaciuta a qualcuno. Sia lui che l’altra giudice del lavoro Tiziana Di Mauro sono stati oggetto di minacce su uno strano volantino. «La gente non ce la fa più, è indignata e sta scoppiando. L’unico modo è usare le maniere forti. Ormai c’è solo il fuoco, da un momento all’altro la mamma di Nasso può morire così come la Di Mauro può scivolare lungo i binari per un capogiro». Deliri firmati “Unione per la Legalità”. Un momento difficile. «Quando l’ho letto mi sono sentito male – dice Nasso all’inviato Giuseppe Salvaggiulo – sono calabrese ma non avrei mai pensato a qualcosa del genere». È dura la vita nei tribunali di frontiera. Lo dice anche una giovane giudice che resta anonima: «Non abbiamo una vita. Ma è quello che sognavo di fare, non mi lamento. Tranne quando alzo lo sguardo dal fascicolo, mi guardo intorno e penso: ne varrà la pena?». (redazione@corrierecal.it)
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