LAMEZIA TERME Nessun colpevole, nessuna giustizia. Solo il ricordo, la memoria e tanto dolore. Una ferita ancora viva, profonda che non si rimargina ancora ma che, ogni anno, fa male come la prima volta. Forse un po’ di più perché il tempo non è una medicina quando i tasselli sono ancora tutti fuori posto. Una giornata dal clima primaverile e un cielo squarciato dal sole ha accompagnato la commemorazione di Pasquale Cristiano e Francesco Tramonte, i due netturbini uccisi brutalmente il 24 maggio 1991 in Zona Miraglia a Sambiase, quartiere di Lamezia Terme. Tante le presenze questa mattina davanti alla targa che ricorda le due vittime innocenti della ‘ndrangheta: ci sono gli studenti, le istituzioni, la politica locale e regionale, le forze dell’ordine e le associazioni. Manca, però, una fetta importante della cittadinanza lametina, quella società civile assuefatta, forse, poco attenta, distratta dalla vita che continua tra gli impegni quotidiani.
Quella vita, invece, sconvolta 32 anni fa ai familiari dei due netturbini che ancora invocano giustizia e verità, ma non vendetta. Una richiesta accorata che ha accompagnato la deposizione della corona di fiori sotto alla targa che, come un monito costante, richiama l’attenzione su una vicenda tanto drammatica quanto assurda. «Ringrazio questi ragazzi, mi avete fatto commuovere». Esordisce così Francesco Cristiano, fratello di Pasquale. «Noi stiamo attendendo risposte, siamo stati da Gratteri, siamo stati anche dal procuratore Curcio, abbiamo consegnato materiale e verbali importanti per cercare di far riaprire queste indagini dopo 32 anni, un’attesa lunghissima e sacrificante. Noi lottiamo ogni anno, con costanza, per cercare di scardinare la giustizia. Ci crediamo, e speriamo che questi messaggi servano a far riaprire le indagini». «Abbiamo subito una cosa terribile, ce la portiamo dietro e non è facile vivere una esperienza simile. Mi auguro davvero che dai pentiti di questa città, grazie al grande lavoro fatto da Gratteri, parlino e raccontino quello che sanno».
L’ultima speranza che rimane per riaprire quello che a tutti gli effetti è un “cold case” è che un collaboratore di giustizia faccia luce sul caso, riaprendo uno squarcio insperato. Solo così si potrebbe riaprire un fascicolo ormai impolverato sulla scrivania della Dda di Catanzaro. Importante, nella forma e nella sostanza, il commento del pm Santo Melidona che ha, di fatto, smorzato i facili entusiasmi, richiamando tutti alla dura realtà. «Ho sentito tante parole belle, quelle dei nostri giovani e delle istituzioni. Riaprire le indagini vuol dire disporre di materiale utile. E, se non si arriva ad avere un contributo serio da qualche collaboratore di giustizia, non sarà possibile riaprire le indagini salvo per spettacolarizzare una iniziativa che comunque non porterebbe da nessuna parte. Nessuno sta fermo, né le forze dell’ordine né l’ufficio di Procura, tutti i collaboratori sono stati compulsati su questa vicenda, ci sono dei punti oscuri poco comprensibili e poco chiari, è un duplice omicidio del tutto anomalo per come è stato realizzato, per i tempi e l’epoca in cui si è consumato, all’alba di una sanguinosa guerra di mafia. E non possiamo neanche definirlo a tutti gli effetti un omicidio di mafia, perché non conosciamo la casuale. Si tratta comunque di un delitto con una considerazione estrema. Gratteri però lo ha ricordato: se non abbiamo un contributo che può uscire unicamente da un collaboratore di giustizia, dopo 32 anni è impensabile svolgere qualunque attività investigativa tradizionale».
Speranze ridotte al lumicino, dunque, per un caso che rischia di restare irrisolto per sempre. Quel che resta, a 32 anni dal duplice omicidio, è il grido di dolore che arriva dai familiari che ancora conservano, gelosamente, i ricordi più belli di un’infanzia dimenticata. «Come ogni anno ci troviamo qui a ricordare quella terribile mattina quando ci siamo svegliati con quel dolore profondo. Mi hanno commosso molto le parole di questi ragazzi, a distanza di 32 anni conoscono la storia, grazie ai genitori e agli insegnanti». «Ottenere giustizia è importante per lenire la ferita e capire il “perché”. Noi però non conosciamo vendetta, abbiamo solo bisogno di verità». «Il ricordo più bello di mio padre è proprio ricordarlo. Mia sorella invece non ricorda nulla di papà perché era troppo piccola quando lo hanno ucciso, e questo mi dispiace tantissimo».
La Corte d’Assise, così come ha scritto Alessia Truzzolillo in un suo recente articolo, assolse l’unico imputato per il delitto, oggi deceduto, Agostino Isabella, e mise nero su bianco quella che era la situazione amministrativa dell’epoca, parlando di «macroscopici favoritismi attuati mediante evidenti violazioni di legge che non potevano non rendere il settore della nettezza urbana del Comune di Lamezia Terme terreno di conquista di spregiudicati operatori mafiosi». Quel 24 maggio 1991 c’erano Tramonte e Cristiano sul camion della Sepi a sostituire due dipendenti della società che erano assenti. E già questo fatto lascia diverse perplessità. A guidare il camion c’è un unico dipendente Sepi, Vincenzo Bonaddio, allora 35enne. E, mentre faceva manovra per agganciare i cassonetti vide nello specchietto retrovisore un uomo, barba e capelli lunghi. Fece in tempo a scappare, con tre proiettili in corpo, di cui uno che gli ha quasi staccato un polso. Si salva, testimonia. Il processo ci mette due anni a partire, la sentenza arriva a giugno 1993. E dopo l’assoluzione non ci sarà appello perché il pm, Luciano D’Agostino, presentò in ritardo la richiesta di ricorso. Buchi e ombre che lasciano spazio ad interpretazioni diverse, tutte con un unico fine: la verità. (g.curcio@corrierecal.it)
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