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vittime di mafia

Storia di un medico giustiziato dai clan. «Mio padre ucciso due volte: dalla ‘Ndrangheta e dall’omertà»

Marco Pandolfo ricorda il padre Nicola, neurochirurgo ai Riuniti «quando Reggio sembrava Beirut». Il boss che mise la pistola sul tavolo per ringraziarlo. E i sette colpi di pistola dopo l’interven…

Pubblicato il: 18/06/2023 – 15:45
Storia di un medico giustiziato dai clan. «Mio padre ucciso due volte: dalla ‘Ndrangheta e dall’omertà»

REGGIO CALABRIA Suo padre era «una persona che, partendo dal nulla, da una famiglia umile, riesce a diventare neurochirurgo». E a 48 anni «diventa primario di Neurochirurgia all’ospedale Riuniti di Reggio Calabria, uno dei più giovani». In ospedale ancora lo ricordano Nicola Pandolfo. Lo hanno celebrato a 30 anni dalla scomparsa per mano della ‘Ndrangheta. Suo figlio Marco rievoca una storia rimasta senza giustizia in un’intervista ad Antimafia Duemila che è anche l’occasione per tornare a un’epoca in cui Reggio Calabria «era come fosse Beirut». Pandolfo muore il 20 marzo 1993: è di servizio a Locri per un consulto quando viene giustiziato con sette colpi di pistola. Con le ultime forze sussurra a un poliziotto una possibile pista che riporta a un intervento andato male e a una famiglia di ‘Ndrangheta. Il neurochirurgo, poco tempo prima, aveva provato – ricorda Antimafia Duemila – a salvare una bambina di nove anni gravemente malata figlia di un boss della ’Ndrangheta. Pandolfo decise comunque di intervenire nonostante la quasi impossibilità della riuscita dell’operazione. Ma insieme alla sua equipe non riuscì nel suo intento. A seguito della morte della figlia, la famiglia richiese la cartella clinica della bambina, elemento che fece immediatamente insospettire Pandolfo, al punto da comunicare alla moglie il nome del casato mafioso, chiedendole di ricordarlo nel caso gli fosse accaduto qualcosa.

«Reggio Calabria sembrava Beirut»

Marco Pandolfo ricorda la Reggio Calabria in cui la sua famiglia si era trasferita, dagli anni 80 fino al ’93. «Era come se fosse Beirut. Andavo a scuola la mattina e durante il tragitto vedevo camionette dell’esercito che presidiavano alcune zone perché era molto usuale che ci fossero sparatorie tra diversi clan e quindi l’esercito era un deterrente. Nicola veniva chiamato spesso per risolvere i problemi chirurgici relativi a pallottole che colpivano anche ‘Ndranghetisti o boss; lui faceva il suo lavoro, che era quello di salvare vite umane». 

«Un boss per ringraziarlo mise la pistola sul tavolo dello studio»

«Mio padre – continua Pandolfo – ci raccontò di un’operazione che venne fatta alla nipote di un boss della ‘Ndrangheta della provincia di Reggio Calabria, non ricordo se fosse Bovalino. In ogni caso l’operazione andò a buon fine. A quel punto il nonno della bambina si avvicina a mio padre e dall’interno della giacca estrae una pistola e la poggia sul tavolo dello studio. Poi gli dice: la ringrazio dottor Gandolfo, se dovesse avere problemi di qualsiasi natura si può rivolgere a me». È un episodio che fa capire al neurochirurgo quale sia il contesto ambientale in cui lavora. Un altro episodio rende il clima ancora più esplicito. Accade nel 1988, quando l’allora primario di Chirurgia di Locri, Girolamo Marino, viene assassinato dalla ‘Ndrangheta perché ritenuto responsabile della morte di una bambina da lui operata. È un campo, la neurochirurgia, nel quale ci si gioca una vita per questione di millimetri: sono interventi delicatissimi, alcuni disperati. 

«Ricordati di questo cognome»

Qui il racconto di Marco Pandolfo tocca il caso dell’operazione tentata da suo padre per salvare la piccola Paola. «A novembre del 1992 la bambina arriva in Pronto soccorso in coma e le viene diagnosticato un tumore al cervello molto invasivo. Nicola decide di contattare la famiglia e spiegare che l’operazione è molto delicata. È praticamente quasi impossibile. Ma c’è una possibilità su 100 di salvare la bambina soltanto se si scegliesse di intervenire chirurgicamente. E Nicola e i suoi colleghi operano la bambina che, da lì a poco, muovo. A quel punto la famiglia ritira la cartella clinica della bambina, cosa insolita negli anni 90». Quando accade, «Nicola vive l’ultimo periodo della sua vita in maniera stressante. E dice a mia madre  “se dovesse succedermi qualche cosa, ricordati di questo cognome”». Dopo i sette colpi di pistola il medico viene soccorso da un poliziotto e ripete le proprie “accuse”. Morirà poco dopo in ambulanza, lungo il tragitto tra Locri e Reggio Calabria.  

Pandolfo ricorda il padre Nicola al Gom di Reggio nella giornata voluta dal manager Gianluigi Scaffidi

L’inchiesta sbatte contro il muro dell’omertà

A occuparsi dell’inchiesta è un giovane pm di Locri, Nicola Gratteri. Le indagini, però, sono complicate. «Le ho lette le carte – racconta Pandolfo –. A 100 metri dal corpo di mio papà c’era un fruttivendolo, un ambulante che, interrogato dal magistrato, disse di non aver sentito e visto nulla. Ma sono 7 colpi di pistola. Forse il primo puoi non sentirlo, ma gli altri… Nessuno parlò o aiutò la giustizia. Non c’è stato un processo, io e la mia famiglia non siamo stati riconosciuti come vittime innocenti di mafia. Quindi ci siamo rimboccati le maniche e abbiamo iniziato una nuova vita». Per anni la famiglia del neurochirurgo ha scelto il silenzio, poi ha iniziato a raccontare il contesto in cui maturò quell’omicidio. Accade quando Marco Pandolfo raccoglie le impressioni della propria moglie: «È lei che mi ha aperto gli occhi e mi ha convinto a raccontare la storia di mio padre per sensibilizzare i giovani, all’inizio pensavo che fosse soltanto una nostra storia privata». Anche grazie alla collaborazione con Libera Pandolfo ora pensa «che la morte di mio padre ha un senso».

«Se non l’avesse operata non avrei potuto guardarlo in faccia»

Pandolfo torna alla storia di suo padre: «Ha fatto bene a operare la bambina – dice ancora a Karim El Sadi di Antimafia Duemila –. Non avrei potuto guardarlo in faccia se non l’avesse operata. E quindi quello che mi porto dietro, dietro e davanti eh per me questa è stata un’esperienza di vita. Il sacrificio di mio padre va ben oltre all’omicidio, non si è girato dall’altra parte». Non è stata soltanto la famiglia a perdere Pandolfo: «La società ha perso circa 25 anni di neurochirurgia fatta a buoni livelli. Quell’omicidio è stato un danno alla società ed è questo, secondo me, che la società dovrebbe essere più aperta ad apprezzarlo questo. Quand’è morto mio padre, è stato catalogato come se fosse caduto dalle scale dell’ospedale, non c’era una sensibilità paragonabile a quella che c’è adesso. All’epoca nelle scuole non si parlava di criminalità organizzata, non c’erano gli anticorpi. Adesso è molto diverso, c’è molta più consapevolezza di quello che succede. Io ho fiducia nei giovani, nelle scuole, negli insegnanti».

Ricerca della verità «all’anno zero. Non c’è stato neanche un processo»

Nonostante il nome fatto da Pandolfo all’agente in punto di morte, «ci troviamo al punto zero» nella ricerca della verità. «Sono passati 30 anni e nessuno ha parlato; io ho sempre la speranza che la verità e giustizia possano arrivare, ma più passa il tempo e più l’obiettivo si allontana. Non c’è stato un processo. Le indagini dopo 3 anni furono chiuse perché non c’erano elementi per pensare a imbastire un processo. Il padre della bambina il 20 marzo era a Bologna, ricoverato in ospedale, quindi non poteva essere stato lui fisicamente. Hanno fatto ulteriori indagini ma non sono emersi elementi. La testimonianza di Pandolfo è rimasta «un’ipotesi, ma ci devono essere delle prove». La famiglia chiede che il medico «venga riconosciuto come una persona che ha dato la vita per il proprio lavoro, per quello in cui credeva». Perché questa storia riguarda tutti, «siamo tutti coinvolti». Ed è giusto che si sappia «che ci sono state e ci sono persone che fanno il loro lavoro senza avere paura di quello che può succedere, non perché siano incoscienti ma perché quella paura riescono a gestirla». (redazione@corrierecal.it)

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