L’architettura della frode si snoda su tre livelli. Il primo è «contraddistinto dall’attività di false fatturazioni realizzata all’interno del sodalizio mafioso di matrice ‘ndranghetista da Salvatore Muto, Domenico Corda, Pietro Arabia, Domenico Caporale». Il secondo step è «riferibile all’emissione di fatture per operazioni inesistenti da parte di società» riconducibili all’ala mafiosa del sistema, aziende «prive di effettiva capacità operativa o evasori totali». La terza fase è invece costituita da quelli che il gip considera «utilizzatori finali», imprenditori spesso insospettabili che utilizzano il meccanismo per lucrare attraverso le frodi fiscali. Colletti bianchi che, per abbattere il carico fiscale, si sarebbero avvalsi di fatture false. Sono loro le persone a cui si riferisce il questore di Reggio Emilia quando sconsiglia di mettersi in affari con i clan perché alla lunga «non conviene».
La “nuova” ‘Ndrangheta emiliana fa affari nel salotto buono di casa tenendo il fucile nella stanza accanto, perché nessuno dimentichi ciò di cui è capace. Ma oggi si preoccupa di offrire servizi finanziari illegali alle aziende secondo un nuovo modello di business. Più sfuggente ma non esente da rischi: seguendo i soldi si trovano burattinai e beneficiari. È, in ogni caso, un cambio di paradigma che gli inquirenti mettono nero su bianco nell’inchiesta della Dda di Bologna che ha svelato il nuovo modello di business: «Che una delle più redditizie attività illecite del sodalizio criminale di matrice ‘ndranghetista operante nelle provincie di Parma e Reggio Emilia sia quello delle false fatturazioni è evidenza ampiamente acquisita nel corso dell’attività investigativa». I reati fiscali anziché il narcotraffico o le estorsioni: guadagni sicuri, creazione di nuovi rapporti economici, meno rischi penali. La ‘Ndrangheta è pronta a cambiare pelle o forse lo ha già fatto.
Un Salvatore Muto ne inguaia un altro. Il primo, collaboratore di giustizia 46enne, spiega alla pm Beatrice Ronchi della Dda di Bologna che è il suo cugino omonimo di otto anni più giovane a gestire il giro di false fatturazione dopo gli arresti di “Perseverance”. «Quindi Salvatore Muto classe 1985 è suo cugino e lui si presta a questa operazione?», chiede il magistrato. «Prima no, ma adesso sì. Ne avete la prova. Quando c’erano i fratelli fuori – spiega il pentito – lui non faceva questo, lui andava a lavorare. Quanto c’erano Antonio Muto e Luigi Muto lui andava a lavorare. Nel provvedimento che è stato fatto da “Amelia”, Luigi Muto, essendo indagato, non può operare, e quindi ha messo il fratello». La famiglia Muto, legata al clan Grande Aracri, è per i magistrati antimafia il cuore dell’infiltrazione della ‘ndrangheta nell’economia e nella vita civile dell’Emilia Romagna. Nelle intercettazioni sono tanti i riferimenti alla figura del nuovo responsabile del “sistema”. Domenico Cordua, cutrese di nascita e una condanna a 15 nel primo grado del processo “Perseverance”, spiega che Salvatore Muto utilizza «i proventi dell’attività delittuosa di falsa fatturazione per mantenere le famiglie dei fratelli detenuti». «I problemi… reali… come prima ti spiegava lui… li abbiamo tutti… tutti e tre siamo messi… prendi Salvatore. Due fratelli carcerati e quindi due famiglie a casa… da manten…», dice.
Le conversazioni dopo una perquisizione alla Cd System srls – appunta il gip – mettono in relazione «la frode nelle fatturazioni alla ‘Ndrangheta». Cordua, in effetti, raccontava il proprio timore di essere arrestato per associazione mafiosa. Appena uscito dalla Questura di Parma racconta: «Allora la “Cd” allora… loro lo sanno che la “Cd” fattura e lo fa per… il problema sai qual è? Che se fanno il riciclaggio dei soldi alla ‘ndrangheta gli fanno un culo tanto… hai capito qual è il problema suo? (…) Vogliono dimostrare che tu le hai fatte per la ‘ndrangheta».
Telefonlandia è una delle ditte destinate, secondo l’accusa, alla predisposizione delle fatture per operazioni inesistenti. Telecamere e cimici la monitorano per mesi. Assieme alle dichiarazioni dei pentiti, questi controlli avrebbero «fatto emergere un sistematico ricorso al reato di emissione di fatture per operazioni inesistenti» realizzato da Salvatore Muto in continuità con l’attività illecita dei fratelli. Muto sarebbe il «terminale di un gruppo dedito alla commissione di reati finanziari. Le singole operazioni di falsa fatturazione sono inserite, infatti, in una più ampia cornice comune in cui il denaro, dapprima, viene raggruppato e, poi, frazionato su società cartiere per essere monetizzato e, quindi, ripartito in relazione alle operazioni illecite individualmente consumate». Gli investigatori lo deducono da un sequestro effettuato nell’inchiesta “Perseverance”: una grossa somma di denaro destinata a essere ripartita tra più persone, tutte collegate a Salvatore Muto, il cui compito sarebbe stato quello di «aggregare e disaggregare i flussi finanziari in un’ottica di gruppo». Subito accanto a Muto vi sarebbero tre collaboratori «con il ruolo di procacciatori di società necessitanti fatture false» e un altro “compare” «incaricato di monetizzare il denaro bonificato per simulare il pagamento della fattura per operazione inesistente».
Per raccontare come funziona seguiamo gli investigatori in due delle aziende coinvolte. Una ha il ruolo di emettere le fatture per operazioni inesistenti: si tratta di una “cartiera”. Non effettua alcuna attività, secondo gli inquirenti. Il suo unico scopo è quello di ricevere denaro da aziende terze e poi farlo girare il denaro verso altre società, dai cui conti torna nelle tasche degli organizzatori del business. Soldi sporchi che vengono ripuliti e consentono detrazioni fiscali agli imprenditori che ricevono la falsa fattura. La società in questione è la Penta System srl, costituita nel luglio 2019 a Gonzaga, provincia di Mantova. Amministratore unico è Domenico Pilato, 32 anni, di Reggio Emilia, condannato a 4 anni e 4 mesi nel primo grado del processo Perseverance. La Penta System «risulta evasore totale», non ci sono dichiarazioni Iva né depositari delle scritture contabili o intermediari nella presentazione delle dichiarazioni fiscali. Nonostante ciò ha emesso numerose fatture nel 2019 e nel 2020 per quasi 80mila euro. Non risultano dipendenti e «tutte le sedi dichiarate sono edifici a uso residenziale» né vi sono «contratti d’affitto relativi a immobili strumentali alle attività dichiarate». Quando scattano le perquisizioni dell’inchiesta “Perseverance”, Pilato prova a dire che i documenti sono nello studio del commercialista senza riuscire a indicare chi sia il professionista, poi dice di non ricordare dove siano custoditi. A quel punto gli investigatori si spostano nella sede legale della società: un appartamento la cui inquilina può soltanto esibire il proprio contratto di locazione. Lì non c’è alcuna azienda. Pilato ha un lampo di memoria e ricorda il nome dello studio che fatto da intermediario nella presentazione delle dichiarazioni fiscali. Una collaboratrice di quello studio spiega che «nel 2019, per le pratiche di attribuzione della partita Iva, Pilato» si sarebbe «presentato in compagnia di un’altro loro cliente, Salvatore Muto». Una presenza, quella di Muto, che conferma i dubbi degli inquirenti. La situazione peggiora quando si scopre che non esistono altri documenti della Penta System e spuntano «tre segnalazioni per operazioni sospette emesse dall’Uif (Unità d’informazione finanziaria, ndr) della Banca d’Italia di cui è destinataria» proprio la società di Pilato. Si mette male, al punto che «è indubbio – si legge negli atti – che la società sia una mera cartiera, i cui conti sono stati utilizzati per la ricezione di bonifici, perlopiù di cifra tonda e provenienti da altre aziende già segnalate, seguiti da immediati prelievi in contanti o postagiro, sempre verso società per la maggior parte già segnalate, fino all’azzeramento dell’intera provvista».
Cosa accade dall’altra parte della “falsa” fattura lo spiega il gip analizzando, tra le tante, la situazione della “Fn Group srl”. Si tratta di una società in liquidazione con sede legale a Smerillo, comune di 300 abitanti in provincia di Fermo. Al suo timone ci sono tre persone e, «in base agli accertamenti svolti dalla Guardia di finanza sono emersi rapporti con Cd System srl, Fbr impianti srl, Ellepi Z Technology srl e Penta System srl», considerate riconducibili a Salvatore Muto. Questi rapporti alimentano il dubbio che si tratti di un’azienda appartenente al gruppo degli «utilizzatori finali» dei servizi offerti dalla ‘Ndrangheta spa. Le quattro società riconducibili a Muto sono, per i magistrati, «cartiere o comunque prive di struttura idonea», quindi «le fatture di cui si tratta devono considerarsi come relative a operazioni oggettivamente inesistenti». La conseguenza è che gli imprenditori titolari della Fn sono accusati di frode fiscale. In questo caso, le fatture emesse sono di entità considerevole per gli anni analizzati. E avrebbero portato a «un profitto pari a 777.542 euro». È il cuore della sfida lanciata dalla Dda di Bologna agli insospettabili che si rivolgono a imprese in odore di ’ndrangheta per sfruttarne i servizi e frodare il fisco. Seguendo i soldi e le fatture delle aziende fantasma i magistrati antimafia hanno individuato 77 presunti utilizzatori finali e 27 aziende che si sarebbero rivolte a Muto&Co per risparmiare sulle tasse. E hanno mandato a tutti un messaggio chiaro: fare affari con i clan alla lunga non conviene. (p.petrasso@corrierecal.it)
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