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La lettera della Marchesa che «visse pericolosamente»

Mi giunge all’improvviso, grazie ai miracoli dell’Intelligenza artificiale, uno scritto di Maria Elia De Seta Pignatelli (Firenze 1894 – Nicastro 1968), la Marchesa c…

Pubblicato il: 29/06/2023 – 20:48
di Romano Pitaro
La lettera della Marchesa che «visse pericolosamente»

Mi giunge all’improvviso, grazie ai miracoli dell’Intelligenza artificiale, uno scritto di Maria Elia De Seta Pignatelli (Firenze 1894 – Nicastro 1968), la Marchesa che “visse pericolosamente”, di cui, sperando non si dispiaccia, do integrale notizia.

Che la lettera giunga ora, in coincidenza con il centenario della nascita del figlio, il regista Vittorio De Seta (Palermo 1923 – Sellia Marina 2011), padre del documentario italiano, credo sia solo un caso.

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 “Amico mio, che mi guardi da una foto a colori. Pennellate lievi d’azzurro, il vestito. Il ritratto, un olio su tela, ritrovato dopo anni di oblio, è di Gino Severini; l’altro, di Renato Guttuso, tripudio di colori!, so che l’hai invano cercato.  

L’ho dato via, non ricordo quando né a chi. Forse, per onorare una parcella legale a difesa di arditi della Patria.

Sai bene che ho promosso arti e cultura. Sono stata amica di D’Annunzio, Marinetti, Ghitta Carrel, Maria Josè, Paolo Orsi, Umberto Zanotti Bianco e di Edoardo Galli, che  mi fece primo ispettore onorario per le antichità della Calabria, ma la Patria io non l’ho mai tradita. E di niente devo scusarmi.

Amico mio, anch’io, dall’oblò di molte lune andate, fra i mormorii del vento, nei boschi, indovino il tuo tempo spaginato, ebbro di vanità e senza spirito profetico. Seppellita l’utopia brancola nel buio. Che pena! I vascelli né luce né gloria, e neanche direzione, confondono restare, partire, arrivare. Che satanasso vi è successo?

Anch’io, dal cumulo del tempo. Quassù, dov’è la mia Torre. Nella magna Sila di fiumare quiete leste a schiantare, magiche acque, culla di antiche schiere d’eroi. Quassù dove sono, a Buturo. Nella Torre fra i boschi, che resiste all’ignoranza e all’incuria. Mai ceduta al nemico, fortezza sicura per gente errante con idee salde. Io l’ho sempre detto che la Calabria è terra di grandi alberi che come gli dei hanno radici forti. Resistiamo, io e la Torre, per sempre.

Comandi signora marchesa!? Rammento come si rivolgevano a me. E rammento Firenze, dove nacqui, che brucia di rosso, nel biennio della mia fuga. La fuga, nel 1920, con un Gesù bambino in braccio. Madonna silana, mi disse D’Annunzio. Già, ma a cavallo. All’alba raggiungemmo i pini del Gariglione, e su su per la costa seguimmo le luci che tingevano le punte degli alberi.

Pensavo agli antichi viandanti che erano saliti solitari e non avevano turbato il silenzio. I nostri cavalli lo riempivano di scalpitii, ché il sentiero era diventato aspro e la roccia affiorava.

Un bagno di luce e di polvere bianca che lo scirocco caldissimo alzava a polveroni: è il mio ricordo di Catanzaro marina, appena giunta dalla Toscana. Servitori senza livrea offrivano gelati in dei piattini sgocciolanti e baroni, vestiti di nero, si segnavano la fronte con i guanti di pelle lucida in mano e mi chiedevano stupefatti: “Voi volete andare in Sila?!”

Sì, è lì che andrò a imparare la via. E la vita, tra i sentieri selvaggi. Notte senza luna, briganti attorcigliati dal gelo, come Elia, in cerca di patria, sul monte Oreb per sgozzare i falsi profeti, e chiedere al vento, nei contrafforti silani: perché sono morti gli eroi?

Comandi signora Marchesa?!

E io sì, ho comandato il rispetto. Figli, Suolo, Patria e Sangue, cercavo la via per uscire dal buio, ma nella notte della ragione ho incontrato mostri, la follia delle razze sacre, il torpore dell’anima, la bellezza precipitata al suolo, l’insaziabilità degli orrori.

E finalmente la Sila. Senza più indugi, discordia, dolore;  dove ho avuto rifugio e i contadini mi insegnarono le sorgive e i guadi degli animali e le scorciatoie, i punti dei pascoli, dei funghi, delle fragole.

Quando capirono che amavo i fiori me li portarono sempre. Madonna silana, e gli amori, gli amori! Concessi, presi, lasciati, straziati. Liberamente ho amato.

Amico mio, che mi guardi, da una foto a colori, fede, pericolo, disciplina, destino, viltà. Non c’è musica fra noi, solo pensieri, che, subito, tra i monti e lo Ionio, si fanno regole, concetti, idee, amici, nemici, fucili e coltelli.

Signora Marchesa, comandi?!

Anch’io, dal cumulo del tempo, osservo lo strazio della tua epoca. So che la civiltà muore del suo successo. E’ già accaduto, alti e bassi e poi nuovamente.

Siamo fotografie lasciate nei cassetti, “sali e tabacchi” nei paesi sdirupati della Calabria, gli scasciati vascelli in secca, i desideri alle tarme all’ombra della sera, giocattoli dimenticati sulla casa in Sila.

Signora Marchesa, comandi?! Mi dicevano, quasi prostrandosi.

Ho visto pastori in giacche di lana parlare coi santi, mi hanno spiegato le stagioni. Ho ascoltato litanie di donne seccagne, con facce terrose i seni perduti. Suoni di zampogne e melodie sconosciute.

Visto Cosma e Damiano, spogliati di pathos, inzuppati di vino e malevolenze. Fiumare di donne magre, antiche, che non ridono mai. Rampogne di generali ai popoli inermi, biciclette lasciate nel viale, bambini aggrappati alla scala, piloti schiantarsi al suolo, ah! Quel mio figlio…Tombe senza nomi, lontane dai saloni dorati.

Non scordo le feste luccicanti, donne eleganti, gioielli e ammiragli geniali, artisti, scrittori, sguaiati capi di stato, pastori che bussano alla porta: parole arrotate e amiche che mi ha donato il destino.

Amico mio, che mi guardi, da un ritratto a colori e sfogli i segreti della mia vita, altri non li sai. Non saprai mai. Né le cinquanta pagine secretate in un archivio americano sulle mie azioni rocambolesche ti potrebbero dire di più.

Tu hai afferrato il mio spirito indomito, e ti basti!

Fa piano, vedo il sorriso, tiepido, lo sguardo inquieto. Io non ho vissuto in silenzio, e di niente ho paura. Ho detestato gli smidollati, ovunque rintanati. Ho smosso le foreste, i potenti, i troni, gli altari. Non mi sono piegata ai coltelli  nei sorrisi di tanta brava gente.

Né le torture inglesi mi hanno infiacchita.

Vieni alla casa in Sila, io sarò incontro al tuo venire, se puoi, quando vuoi. In alto, la strada la sai, affila lo sguardo, stai attento: girano liberi nel cielo (ancora) gli aquiloni. Accorto però. Se lo sguardo non s’aggrappa a quello giusto, se poggi il piede sul filo sbagliato, se lasci che la forma ingoi lo spirito, mi dileguo in un istante.

Non ho da rendere conto al tempo, ma non ho tempo da sciupare.

Mi dà noia l’insulso sproloquio dei signorsì, l’ipocrisia dei lacchè, il conformismo da supermercato. La volgarità del vivere, che è sempre uguale. Che non penetra mai i segreti e neanche la Calabria profonda, che non è paese di musica, ma di pensiero che subito crea formule e regole. Com’io l’ho vissuta.

Per vederci e parlarci, come sai,  non è necessario che tu ritorni alla Torre, nel bosco di Callistro, ma se vieni, se vieni è un piacere. Soltanto, se ti è possibile, porta con te una copia del mio libro che l’editore ebreo Brenner di Cosenza nel 1966 ha avuto l’amabilità di pubblicare. Avrei piacere di sfogliarlo”.

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