COSENZA Luigi Abbruzzese è, per i magistrati della Dda di Catanzaro il «capo» del clan di Lauropoli. Il gip distrettuale lo considera «pienamente operativo anche nel periodo della sua latitanza», durata tre anni e conclusa con l’arresto del 18 agosto 2019. Nicola Gratteri, nella conferenza stampa convocata per raccontare la chiusura di quella latitanza, sottolineò il ruolo centrale del boss, figlio di un altro storico capo della ‘ndrina, “Dentuzzo”. «Catturare Luigi Abbruzzese era per noi una priorità, perché riteniamo che adesso abbiamo congelato l’operatività della sua cosca di ‘ndrangheta, in ascesa nel Cosentino – disse il procuratore capo –. È una cosca che ha avuto il “permesso” di trattare direttamente con i cartelli colombiani per il traffico di droga».
Abbruzzese, allora 29enne, si nascondeva a Cassano allo Jonio, territorio di elezione del clan. Seppur giovane, sarebbe stato ai vertici della cosca già nel 2009. Così raccontano i collaboratori di giustizia citati nell’ordinanza di custodia cautelare, alcuni dei quali riconoscono al capo designato degli “zingari” il ruolo di vertice indiscusso del clan confermando «che l’attività illecita di sostentamento della cosca era legata al traffico di sostanze stupefacenti». “Micetto”, al secolo Celestino Abbruzzese, in un interrogatorio dell’aprile del 2019, «evidenziava il potere decisionale di Luigi Abbruzzese specificando come questi fosse in grado di determinare le scelte del clan degli zingari di Cosenza», cioè dei collegati “Banana”. Un capo a tutti gli effetti: rispettato e temuto. E, soprattutto, delegato alla gestione delle attività economiche. Lo stesso “Micetto” avrebbe spiegato che «Luigi era presente alle trattative del traffico di stupefacente insieme al padre “Dentuzzo”, quando gli stessi insieme ad Antonio Abbruzzese del clan Banana avevano stabilito le modalità della fornitura di stupefacente e il pagamento del medesimo».
È nella richiesta di misura cautelare che compare un altro passaggio che serve a delineare la figura del giovane boss. Il gip la cita nell’ordinanza: è una conversazione nella quale emerge «come Luigi Abbruzzese, discorrendo del battesimo di una bambina, sua parente, suggeriva (…) di fare in modo che la stessa si presentasse alla collettività a nome dei tre cavalieri, riportando il nome di “Osso, Mastrosso e Carcagnosso”». In questo modo – sintetizza l’accusa – «la bimba avrebbe avuto tutte le porte aperte». Riferimento esplicito alla «leggenda storica» che vuole che i tre cavalieri abbiano fondato «rispettivamente, Cosa Nostra in Sicilia, la Camorra a Napoli e la ‘Ndrangheta in Calabria». Da parte sua, «l’Abbruzzese attribuiva a sé stesso la dote di “quarto cavaliere”, in tal modo sottolineando il proprio assoluto rilievo criminale». (p.petrasso@corrierecal.it)
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