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«La ‘Ndrangheta ad Aosta c’è, lo hanno dimostrato le indagini»

La Cassazione conferma la sentenza d’appello per gli imputati del processo “Geenna”. «Legami i clan della Jonica reggina»

Pubblicato il: 04/07/2023 – 11:25
«La ‘Ndrangheta ad Aosta c’è, lo hanno dimostrato le indagini»

AOSTA «In questo processo, svoltosi nel merito nelle forme del giudizio a prova contratta, le acquisizioni probatorie, non sgorgate dal contradditorio dibattimentale per la prova e sulla prova in formazione, emergenti in via diretta ed immediata dagli atti contenuti nel fascicolo delle indagini preliminari, hanno consentito di accertare» che ad Aosta «era operativa, negli anni in contestazione, una organizzazione mafiosa del crimine che affonda le sue radici nella ‘ndrangheta calabrese, ubicata nei settori jonici reggini». Lo scrive la seconda sezione penale della Corte di Cassazione nelle motivazioni della sentenza con cui, il 20 aprile scorso, ha confermato per nove degli 11 imputati la sentenza d’appello con rito abbreviato del processo Geenna. «A differenza di quanto affermato« da un’altra sezione della Suprema corte, la quinta, che il 24 gennaio scorso aveva invece disposto l’annullamento con rinvio della sentenza di secondo grado emessa il 19 luglio 2021 dalla Corte d’appello di Torino nei confronti di quattro imputati nel processo Geenna con rito ordinario – il ristoratore Antonio Raso, l’ex consigliere comunale di Aosta Nicola Prettico, Alessandro Giachino e l’ex assessora comunale di Saint-Pierre Monica Carcea – e confermato l’assoluzione per Marco Sorbara, ex consigliere regionale della Valle d’Aosta.
Secondo i giudici della seconda sezione penale «l’esito divergente della originariamente unitaria regiudicanda è del tutto fisiologico e non apre la stura ad un potenziale contrasto tra giudicati, dipendendo dalla variabile processuale del differente rito scelto dagli imputati».

«In Valle d’Aosta replicato un modello mafioso»

«Il processo svoltosi con rito abbreviato ha consentito di dimostrare quanto descritto in imputazione, cioè che la plurisoggettività organizzata (ancorché a ristretta base sociale) di satelliti ‘ndranghetisti traslati in territorio valdostano (anche da più di una generazione) ha ivi replicato (dal 2014) un modello mafioso che si avvale dell’assoggettamento omertoso per controllare un determinato territorio e le attività (lecite o illecite) che in quel territorio hanno luogo», scrive la seconda sezione penale della Corte di Cassazione nelle motivazioni della sentenza.
Le pronunce di primo e secondo grado hanno dato conto, scrive la Cassazione, «delle relazioni concrete, di carattere autorizzatorio-gerarchico tra esponenti di vertice della casa madre calabrese, di San Luca ed i soggetti (Bruno Nirta e Marco Fabrizio Di Donato) protesi a colonizzare il territorio vergine subalpino; la sentenza impugnata ha, in conformità a quella di primo grado, riscostruito l’attività di Bruno Nirta, dei fratelli Di Donato (Marco Fabrizio e Roberto Alex) e» di Francesco «Mammoliti, tesa ad assicurare l’operatività della propria espressione “locale” radicata nella ‘ndrangheta calabrese“. Un «potere intimidatorio» che è stato «mutuato dalla associazione mafiosa di riferimento, nel caso di specie la ‘ndrangheta, e concretamente attuato anche nella gestione di attività commerciali lecite» e «perfino nella distribuzione delle aree di sosta valdostane ai mercanti provenienti dal sud carichi di prodotti autoctoni da commercializzare a latitudini più elevate». (Ansa)

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