Fino al 1862 era solo Mariano, poi diventò Mariano Comense. Situato tra il fiume Seveso e il Lambro, tra Como e Monza.
Qui si svolse dopo la seconda guerra mondiale la prima Festa dell’Unità nell’Italia liberata dal fascismo. Era il 2 settembre del 1945 quando arrivarono in paese a parlare Giancarlo Pajetta, Luigi Longo e Giorgio Amendola. Qualcuno ricorda mezzo milione di persone, ma forse il dato è esagerato dall’orgoglio della memoria. Certo però il quotidiano comunista il giorno dopo aprì la prima pagina su quella “Festa di popolo dell’Unità. Domenica nel bosco di Mariano Comense”. Da quelle parti era spirato il vento del Nord, con i partigiani del paese aderenti a Giustizia e libertà che avevano messo in fuga i nazisti la vigilia del 25 aprile.
Storie del secolo breve di un centro industriale di 25000 anime che non immaginavano di diventare “un centro storico” della ‘ndrangheta lombarda.
Fece molto scalpore nel 2013, dopo un’operazione della Dda apprendere di un bambino di dieci anni dire ad un cugino soldato di ‘ndrangheta «Voglio venire a lavorare con te». Ludovico Muscatello all’epoca aveva 24 anni. Specifica il gip Andrea Ghidetti: «Cercava di seguire le orme del cugino Ludovico, in quanto a dire del bambino, Ludovico era una persona temuta anche per la sua appartenenze al clan Muscatello». E fa eco nell’ordinanza anche il papà del ragazzino Domenico, anch’egli appartenente al clan, che «si compiaceva del fatto che il figlio di dieci anni facesse già determinati ragionamenti». Buon sangue non mente pensavano quelli della Malapianta di Mariano Comense, una tra le locali più radicate della Lombardia.
Muscatello clan senza grande brand di notorietà, ma con ruoli di alto lignaggio, per lunghi anni ‘ndrangheta sommersa e acquattata tra Como e Milano, poi decimata e abbattuta dai nuovi metodi d’indagine e dalla legislazione speciale.
Sbattono contro l’inchiesta “Crimine infinito” poi completata dall’operazione “Crociata” dal nome dell’alta dote di ‘ndrangheta conferita alla locale di Mariano Comense. Fornitori di droga in Puglia, Calabria e Lombardia ma anche scalatori di società in difficoltà incastrati da un imprenditore di origini calabresi che vessato da un pregiudicato socio di minoranza aveva avuto il coraggio di andare a raccontare tutto alla Dda di Milano.
Il capostipite dei Muscatello a Mariano Comense era Salvatore detto “Il vecchio”. Lo avevano arrestato la prima volta nel blitz “Fiori di San Vito” negli anni Novanta, poi per “Crimine infinito” condanna definitiva a 16 anni, considerata l’età li può scontare ai domiciliari senza attirare attenzioni mediatiche, In quell’esilio forzato don Salvatore riceveva persone, dispensava i buoni consigli da vecchio capo, risolveva controversie, accoglieva candidati in cerca di voti alle elezioni.
Il vecchio Muscatello da uomo libero stava anche al summit di ‘ndrangheta del circolo Arci intitolato a Falcone e Borsellino a Paderno Dugnano in cui si regolano i conti con lo scissionista Novella che voleva rendere autonoma la Lombardia dalla Calabria. Lui e il suo autista non sono noti a chi svolge quella famosa indagine che piazza le telecamere al celebre summit calabrolombardo. Assegnano un numero gli investigatori agli sconosciuti, come nel caso del numero 19, che si scoprirà essere Giovanni Carneli, quarantenne di Locri, indagato nel 2006 per traffico di droga. È lui l’autista di Salvatore “Il vecchio” identificato con il numero 21.
Quel giorno Muscatello si assume l’onore e l’onere di investire Pasqualino Zappia come mastrogenerale della Lombardia, il nuovo organismo di controllo delle ndrine, quale successore di Carmelo Novella, ucciso in un bar di San Vittore Olona per le sue mire autonome contro quelli di Polsi. Salvatore Muscatello il vecchio per le sue doti mafiose e di saggezza è l’incaricato di portare ‘a mmasciata (il messaggio) a Novella per starsene più quieto.
Ma Novella non ascolta neanche i vecchi saggi. Muscatello, intercettato con un suo compare dirà del fatto di sangue: «Lui (Novella) stava allargando troppo le mani, e quello, quello non aveva niente, e per quello è stato bruciato». Un boss della vecchia guardia Salvatore, capace di intendersi con i boss rimasti in Calabria, Rocco Aquino, Giuseppe Pelle, Domenico «Mico» Barbaro, tutti suoi diretti interlocutori.
Infatti è lui a gestire per conto delle rispettive famiglie gli inviti per il matrimonio tra i giovani Barbaro e Pelle, che nel 2008 sancì l’unione tra le due potentissime cosche. Inviti da distribuire a tutti, tranne che a Novella. Segno inequivocabile che la sentenza di morte era stata ormai emessa dopo non aver ascoltato neanche quel vecchio boss, il quale tutto sommato lo scissionista ancora rispettava.
Muscatello capì che il mondo era cambiato nell’ottobre del 2015 quando gli uomini dei Morabito discendenti del temibile Tiradritto di Africo avevano messo in difficoltà il nipote Ludovico davanti ad una discoteca di Cantù. Quel Ludovico tanto idolatrato dal cugino di dieci anni era stato colpito a simboleggiare il tramonto della dinastia.
Era il 4 ottobre quando la discoteca “Spazio” era stata devastata dai giovani africoti per far capire che Mariano Comense non poteva controllare i locali del divertimento di Cantù. Ludovico aveva tenuto testa ai rivali ma era stato colpito da un proiettile. Sei giorni dopo si replica. Ludovico Muscatello viene ferito con sei colpi di pistola mentre è davanti ad una panetteria assieme ai dipendenti di una discoteca da lui controllata. Il patriarca dal suo domicilio capisce che gli equilibri sono cambiati. I Muscatello si ritirano e lasciano campo libero ai Morabito. In altri tempi e forse in altri territori sarebbe scoppiata una feroce guerra di mafia.
Invece il “vecchio” Muscatello sconta la sua pena in casa e diventa come ha scritto Cesare Giuzzi sul Corriere della Sera: «una sorta di oracolo da consultare, un monumento da omaggiare, di feticcio da venerare. Il tutto intriso di quella falsa morale dell’onore che è una delle bugie su cui si fonda il potere, e la vita, nella ‘ndrangheta».
Salvatore Muscatello è morto nella sua casa di Mariano Comense a 85 anni. Al funerale c’erano pochi calabresi giunti da giù, le donne, tra gli uomini detenuti il solo figlio Domenico, l’unico che aveva ottenuto il permesso di presenziare alle esequie di uno dei boss della prima generazione che aveva conquistato il Nord. Tutto molto sommesso senza eccessi e senza vistosità. «Dai vertici mi dissero che, fino a quando c’era Salvatore Muscatello, il crimine in Lombardia lo avrebbe avuto Mariano Comense» aveva detto il pentito Salvatore Nocera. Lo aveva dimostrato il vecchio Muscatello quando agli arresti domiciliari il figlio venne a raccontare che i Medici volevano comandare a Mariano Comense. Il padre aveva mandato subito il figliolo a parlare con i boss della Jonica reggina. Raccomandandosi di evidenziare “l’abbandono” e la “debolezza” dei Medici. Era venuto meno il sostegno ai detenuti e il pretendente padrino era dedito al consumo di droga. “Il vecchio” era stato ascoltato perché aveva stretti legame con Antonio Pelle “Gambazza”, capo dell’omonima cosca di San Luca. Era stato lo stesso Muscatello a dirlo, e certo non da pentito, nel processo Infinito, ricordando che quando erano ragazzini «andavano a pascolare il gregge insieme».
Poi era cambiata l’araldica. Nei giornali locali ora si legge: «La sensazione è che il territorio di Mariano Comense, soprattutto dopo la morte di Salvatore Muscatello, per alcuni anni formalmente il più alto in grado nella gerarchia della mafia calabrese nella nostra regione, sia diventato terra di conquista di altre famiglie».
C’è un nuovo che avanza nella ‘ndrangheta di Mariano Comense. (redazione@corrierecal.it)
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