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Le telefonate tra il “tycoon” vibonese e Ferrante, definito da Mantella la «Banca della ‘ndrangheta»

Il laboratorio-Vibo, dove l’ossessione per il consenso interessa politici e imprenditori. I rapporti tra l’editore Domenico Maduli e il titolare del “Cin Cin bar” per recuperare un credito dell’ex …

Pubblicato il: 17/07/2023 – 6:19
di Paola Militano
Le telefonate tra il “tycoon” vibonese e Ferrante, definito da Mantella la «Banca della ‘ndrangheta»

VIBO VALENTIA L’ossessione per il consenso attraversa la politica calabrese e ne travalica, spesso, i confini. Coinvolge amministratori, dirigenti di partito e qualche imprenditore che si inserisce nel perimetro della ricerca di voti. Vibo e la storia di Pietro Giamborino, ex consigliere regionale che la Dda di Catanzaro ritiene legato alla cosca dei Piscopisani, confermano la premessa. Nei giorni scorsi vi abbiamo raccontato il “panico” della politica per una scelta maturata da Giamborino nel 2017: le dimissioni dall’Avvocatura regionale. La scelta preoccupa sia l’ex governatore Mario Oliverio che il suo amico e consigliere (già vicepresidente della giunta regionale) Nicola Adamo. L’assillo di trovare subito una nuova collocazione per Giamborino è – secondo i magistrati antimafia – funzionale alla necessità di «piegare il sistema delle nomine pubbliche per soddisfare esigenze di natura politica, quale era quella di non perdere un importante referente sul territorio in grado di veicolare voti alla loro “causa”». I pacchetti di voti sono al centro di una parabola politica complessa come quella dell’ex consigliere regionale, per il quale l’accusa ha chiesto 20 anni di reclusione nella requisitoria del processo “Rinascita Scott”. Prima di diventare l’uomo nero della politica vibonese, Giamborino era potente e sponsorizzato da importanti settori imprenditoriali della città. 

Quando Maduli diceva: «Di Giamborino ne rispondo io»

Pietro Giamborino
Pietro Giamborino

Tra questi anche l’editore del gruppo LaC Domenico Maduli che, in un colloquio con l’amico Mario Lo Riggio (anche lui coinvolto nell’inchiesta “Rinascita Scott”) si sbilancia: «Su Giamborino ne rispondo io… a Mario mio… due parole ti dico… questo deve fare il sindaco a Vibo… grazie Mario mio… sappi che dietro ci sono io qua… è dura… ma c’è un carro armato dietro a lui». Il trait d’union politico è sempre il carro (più o meno armato) del centrosinistra all’epoca – siamo nel 2014 – al governo della Regione e in buoni rapporti (che si incrineranno poi) con l’editore. Il “capo” di Pubbliemme (poi divenuta Diemmecom) spiega: «Giamborino è il candidato di Mario Oliverio», prima di chiosare «su Giamborino ne rispondo io». La sua analisi politica è efficace: «Se la gente lo vuole capire – dice Maduli – dobbiamo andare con… a Vibo, legati con la Regione… se la gente lo vuole capire… se non lo vogliono capire, se la prendono nel culo». «Vibo – chiarisce ancora meglio – in questo momento ha bisogno di essere governata dalla Regione… l’unico candidato che può praticamente fare un filo… cioè… un governo filo gove… cioè un’amministrazione filo-governativa, con l’attuale Regione, si chiama Pietro Giamborino a Vibo, non ce ne sono altri».

I rapporti del tycoon vibonese con Ferrante, la “Banca d’Italia della ‘Ndrangheta”

Domenico Maduli (a sinistra) e Gianfranco Ferrante

Se il sostegno per Giamborino è motivato su basi politiche, Maduli stringe un rapporto di natura commerciale con un altro politico della zona, Salvatore Bulzomì, in cerca di conferma tra i banchi del consiglio regionale dopo una prima elezione maturata nel 2010 tra i ranghi del centrodestra. È questo rapporto a evidenziare un legame che rischia di essere imbarazzante per il “tycoon” vibonese. Dagli atti riversati nell’inchiesta “Rinascita Scott” emerge infatti che Bulzomì sarebbe stato “raccomandato” a Maduli (non indagato nell’inchiesta) da Gianfranco Ferrante, proprietario del “Cin Cin bar”. La figura di Ferrante, con il passare del tempo (e con il procedere dell’inchiesta) si colora di sfumature inquietanti. Secondo diversi collaboratori di giustizia l’imprenditore avrebbe intrattenuto rapporti con le cosche delle Serre vibonesi, con il clan Lo Bianco-Barba e con i Mancuso, centro attorno al quale gravitano tutte le costellazioni criminali della Provincia. Per Andrea Mantella, uno dei pentiti chiave dell’inchiesta, Ferrante era una sorta di «Banca d’Italia della ‘ndrangheta»: «Prendeva i soldi anche dai Mancuso e poi finanziava la rete di usurai», ha spiegato in aula il collaboratore, secondo il quale l’imprenditore sarebbe stato «funzionale per sostenere la malavita nel Vibonese». 

Il “caso Bulzomì”: la pubblicità elettorale non pagata dall’aspirante consigliere regionale

Salvatore Bulzomì

In una nota del 2 gennaio 2015 indirizzata dai carabinieri di Catanzaro alla Dda si fa riferimento a «eterogenei rapporti d’affare» tra Ferrante e Maduli. Il “caso Bulzomì”, d’altra parte, evidenzia una conoscenza diretta tra i due. E mette in luce una richiesta dell’editore al titolare del bar. A fine dicembre 2014, Maduli contatta Ferrante e gli dice: «Mi avevi raccomandato… eh… lo abbiamo cercato di trattarlo bene a coso… a Bulzomì… fatto… anche se poi era debole di suo… però su Vibo comunque è stato sempre quello più votato». La comunicazione si interrompe e riprende qualche minuto più tardi, quando Maduli affronta il cuore della questione. «Ti volevo dire a Bulzomì gli abbiamo fatto un super lavoro (…) eh, l’unica cosa siccome i politici praticamente, per regola questo qua, pagano sempre prima delle elezioni e infatti così a Vibo pure hanno pagato tutti quanti, ora con lui abbiamo fatto un trattamento diverso perché è un amico, insomma, è una persona… è una persona a modo, eh… però siamo rimasti che dopo le elezioni chiudeva ‘sto fatto, mo’ la gente mi sta chiamando dice sai, mi sta rimandando di giorno in giorno». Ferrante si informa sull’ammontare del debito del politico e Maduli chiarisce: «È poco, parliamo di una fesseria che lui è che poteva fare tanto, capito? Ora non mi ricordo però è poco guarda, è poco rispetto a quello che hanno fatto altri». 

La «supremazia di Ferrante su Bulzomì»

L’imprenditore del “Cin cin bar” si ripropone di parlarne con il politico che descrive come «un ragazzo serio, ha qualche problemino, che vuoi ehe… però voglio dire stati tranquillo, non ti preoccupare». «Senza che lo chiami apposta – risponde Maduli –, se lo vedi gli dici “oh Salvatore glielo chiudi quel conto a Pubbliemme” ecco… no, ma sai perché… che tra l’altro con i politici io volessi regalarglielo, faccio un esempio, una cosa mia, non glielo posso neanche fare, perché le elezioni regionali sono sottoposte al Corecom e quindi abbiamo una tracciabilità al 100% di tutto». Il ricorso a Ferrante come tramite per una sorta di “moral suasion” nei confronti del candidato insolvente pare giustificato da un altro passaggio contenuto nelle note dei carabinieri, per i quali come Ferrante avrebbe manifestato «una certa “supremazia” nei confronti del consigliere regionale Bulzomì, non solo rimproverandolo, in due distinte occasioni, per il ritardo» a un appuntamento «oppure per non averlo chiamato, ma anche “convocandolo” presso la sua abitazione per poterci parlare».   

«Mi sono dovuto incazzare…»

Il caso Bulzomì non si risolve come auspicato. Qualche giorno dopo Maduli contatta nuovamente Ferrante e i toni (nei confronti del politico) sono più accesi. «No, che chiamavo Salvatore eeee e poco… poco cioè… mi sono dovuto incazzare perché praticamente mi fa fare continue telefonate a me, all’amministrazione, dalla gente». «Ahhh, ma non ha sistemato ancora?», chiede Ferrante. «Nooo – è la risposta – ma gli ho detto “Salvatore siamo amici riconosciuti… cioè praticamente non mi stare… con il coso… “perché praticamente mi fa fare telefonate a destra e sinistra… “io tempo da perdere non ne ho” gli ho detto io… “Salvatore mio… mi fai fare brutta figura… io mi metto a disposizione con te però non mi devi far chiamare dagli altri”». Maduli sottolinea la cosa è «aperta» da un mese. E Ferrante si propone nuovamente di risolverla: «Adesso lo chiamo io… lo chiamo io», al che l’editore prova a bloccarlo («lascialo stare che adesso l’ho chiamato io»). C’è sempre la politica di mezzo. Una volta per guidare (o almeno provarci) Giamborino sullo scranno più alto del Comune di Vibo Valentia. Nell’altro caso per recuperare quanto dovuto da un aspirante consigliere regionale. Nel laboratorio-Vibo quest’ultima attività passa attraverso contatti con il titolare di un bar che, per un pentito, è la “Banca d’Italia” dei clan vibonesi. Per Ferrante, la Dda di Catanzaro ha chiesto una pena di 26 anni di carcere. (paola.militano@corrierecal.it)

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