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De Masi: «Noi calabresi abbiamo spesso dato il potere a incapaci. Solo la rabbia può salvarci»

I rischi dell’autonomia differenziata. La fuga dal Sud. E la speranza «che ci svegliamo». Parla l’imprenditore e testimone di giustizia

Pubblicato il: 21/07/2023 – 6:44
di Emiliano Morrone
De Masi: «Noi calabresi abbiamo spesso dato il potere a incapaci. Solo la rabbia può salvarci»

Antonino De Masi è un imprenditore e un testimone di giustizia calabrese. Le sue aziende producono macchine per l’agricoltura alle spalle del porto di Gioia Tauro. Sotto scorta, l’uomo è noto per il proprio coraggio: non ha mai ceduto alle minacce della ’ndrangheta né alle pressioni delle banche che l’avevano trascinato nella morsa dell’usura. Con lui oggi parliamo di No tax area, che definisce «acceleratore di ricchezza». Si tratta di un’idea che De Masi aveva lanciato anni fa e che, dopo l’iniziale interessamento di alcuni parlamentari, non fu più sostenuta dalla politica, né alla Camera né al Senato. “Cantiere Calabria” riprende dunque l’argomento, con l’auspicio che possa ridiventare oggetto di confronto e di approfondimento, magari nell’ambito di un’ampia discussione sulle iniziative e misure utili a creare posti di lavoro nel territorio, a frenare la fuga dei giovani e lo spopolamento regionale. Sempre con De Masi, che conosciamo da tempo e al quale diamo perciò del Tu, affrontiamo insieme il discorso sull’autonomia differenziata, che bolla e boccia come «acceleratore di povertà».

Antonino, di recente, a proposito di autonomia differenziata, hai avuto un diverbio in tv con l’ex ministro Roberto Castelli. Tu gli hai detto che occorrono soluzioni che non dividano il Paese, lui ha replicato dandoti del Voi, come a marcare le distanze tra settentrionali e meridionali. Che cosa serve al Sud, in particolare alla Calabria, per il rilancio dell’economia e l’uscita dalla marginalità?
«Negli anni scorsi ebbi modo di entrare in profondità nel racconto del Sud, specie della Calabria. Osservai che i nostri territori andavano più che mai verso il baratro, in caduta libera. Dissi della povertà in aumento e del divario crescente tra Nord e Sud. Poi mi chiesi quali potessero essere gli elementi di novità in grado di produrre condizioni di cambiamento, di offrirci una prospettiva diversa, più aperta e incoraggiante. In altri termini, rispetto alla curva di caduta verso il basso, mi domandai come si potesse invertire la tendenza, ottenere una risalita economica e sociale».

Sono questioni che oggi non trovano più spazio nel dibattito pubblico?
«Può darsi, visto che spesso appare redditizio parlare di sciocchezze e stupidità. Allora non vedevo una via di uscita. Poi mi resi conto che l’unica possibilità di dare una prospettiva al Mezzogiorno era quella di costruire, di creare degli acceleratori di ricchezza. Precisai, in interviste, convegni e altre uscite pubbliche, che l’unico strumento per trasformare un territorio povero in territorio ricco erano degli acceleratori di opportunità, di sviluppo. Avevo già avuto l’onore di conoscere in varie occasioni i maggiori economisti del mondo. Perciò rilevai come Paesi tipo il Giappone, subito dopo la Seconda guerra mondiale, avessero avuto una ricostruzione. Fino agli anni ’60, il Giappone era nel mondo sinonimo di prodotti bad quality, di brutta qualità, anche tecnologica. Dopo, il Giappone, quindi non un’azienda, non una città, iniziò a diventare una piattaforma tecnologica, con uno sviluppo enorme e il passaggio in 20 anni da bad a best, dall’arretratezza al primato tecnologico».

Un discorso simile vale per pure la Cina?
«Sì. Noi la consideravamo molto male. Oggi stiamo vedendo che in pochi anni, non più di 20, la Cina ha raggiunto un livello tecnologico impressionante. Allora mi chiesi e mi chiedo: come mai quanto è stato fatto in territori così grandi non si può fare in quelli piccoli come il Mezzogiorno e la Calabria? Li ci sono state politiche industriali che hanno portato a creare una cultura dell’eccellenza e della ricerca, a creare un sistema produttivo progettato per crescere e primeggiare. I cinesi hanno dimostrato che la capacità e una buona progettazione fanno la differenza; per esempio, costruendo intorno ai distretti industriali un sistema universitario per trasferire i saperi e le competenze nel territorio; per esempio, collegando ricerca e specificità territoriali. Perciò, nel guardare e nell’analizzare ciò che hanno fatto gli altri, non abbiamo neanche l’alibi delle nostre difficoltà di scolarizzazione, quindi di formazione. Infatti, i Paesi come la Cina sono riusciti ad ottenere quel tipo di performance tecnologica e di avanzamento tecnologico partendo anche da un livello culturale molto più basso del nostro».

Dai modelli dell’estero alla No tax area in Calabria?
«Allora, per noi – che prospettiamo di adeguare il sistema agli standard europei, a porzioni di territorio, quindi a regioni, non a continenti né a nazioni – il compito dovrebbe essere più facile. Ma così non è stato. All’epoca mi chiesi quali fossero gli strumenti che in tempi relativamente brevi, più o meno un decennio, potessero elevarci da portatori di povertà a portatori di prospettive di sviluppo. All’epoca, credo d’averlo scritto cinque o sei anni fa, lanciai l’idea di un’area franca, per riprendere quello che era stato fatto nel nord Europa: in Irlanda, prima territorio poverissimo caratterizzato dagli allevamenti di pecore, poi isola portatrice di grandi opportunità. In tempi brevi si può creare ricchezza introducendo una No tax area. Così, il sistema industriale, il sistema produttivo e il sistema economico possono investire dei capitali al di là dell’arretratezza infrastrutturale del territorio. Ciò può innescare acceleratori di crescita al punto da far passare in secondo piano le strade sgarrupate, come le chiamo io, o la mancanza di infrastrutture. È una forma di compensazione: meno tasse laddove esistono meno infrastrutture».

Quell’idea è rimasta teorica?
«Sì. La lanciai come un acceleratore di opportunità. Sono passati diversi anni da quella mia iniziativa e ci troviamo ancora oggi ad analizzare che, negli ultimi 10 anni, tutto un popolo ha lasciato il Sud per il Nord, esattamente un milione e 139mila persone. Per la sola Calabria, la migrazione riguarda circa 50mila persone all’anno, fatto che, su un territorio di due milioni di abitanti, è drammaticamente pesante e determina un impoverimento galoppante dal punto di vista sociale, culturale ed economico. Ma l’Istat ci dà anche un altro elemento: ci avverte che nella popolazione italiana, per via dei problemi demografici e della poca natalità, da 59 milioni di abitanti passeremo a 48 milioni fra una trentina d’anni, con una perdita di Pil di 18 punti. Chi perderà questi 18 punti, il ricco Nord organizzato e performante o il Sud, già di per sé povero e sottosviluppato rispetto al Nord? Certamente sarà il Sud a risentirne di più, a perdere quasi per intero il punteggio in questione».

Tu non credi alle potenzialità dell’autonomia differenziata?
«Abbiamo sotto gli occhi lo scenario che ci danno le statistiche e le previsioni: tra 20 o 30 anni, il Sud sarà un territorio ancora più povero rispetto a quello che è. E qui torno a rispondere alla tua domanda. Lo scontro che ho avuto con l’ex ministro Castelli da che cosa nasce? C’è una posizione molto chiara in tutta questa storia. Per il Sud, le riforme in corso, vedi l’autonomia differenziata, si prefigurano non come acceleratori di ricchezza ma come acceleratori di povertà, in un contesto in cui la caduta verso il baratro è già troppo rapida. Nel Mezzogiorno avremo il totale impoverimento economico. E c’è un’aggravante, cioè l’ulteriore divario che si sta creando: i servizi prestati ai cittadini dei vari territori italiani saranno legati alla ricchezza delle singole regioni. Ciò significa che ci saranno le regioni ricche, che avranno la capacità di fornire i servizi primari, di garantire scuola, sanità e infrastrutture di livello, e quelle povere, invece sempre più depresse e inadempienti. L’autonomia differenziata spacca il Paese, ne distrugge l’unità». 

Poniamo che si riesca ad avere un’area a tassazione agevolata, anche coincidente con l’intero territorio regionale. Ciò consentirebbe di attrarre investimenti esterni. Però qualcuno ripete che in Calabria manca il soggetto, nel senso che le politiche assistenziali hanno nel tempo creato una cultura di immobilismo e sudditanza, di pigrizia, di rifiuto del lavoro in ambito privato e di allergia al rischio d’impresa. Vedi e temi questo problema?
«Emiliano, questo è un punto scottante. Ora si sta parlando spesso del Pnrr come strumento che potrebbe innescare un grande sviluppo economico e sociale del Sud. Tuttavia, se dalla Cassa per il Mezzogiorno in avanti, strumenti e quantità di denaro immessi nel territorio hanno incrementato la povertà del Sud e il suo divario dal Nord, perché il Pnrr dovrebbe riuscire dove i piani precedenti hanno fallito? Credo che qui ci sia un elemento nuovo da analizzare. In questa storia, cioè nell’attuazione del Pnrr, gli attori principali del futuro della Calabria siamo noi che ci viviamo. Dobbiamo riconoscere i nostri errori. Infatti, con il nostro omertoso comportamento di far finta di non vedere e di non capire, abbiamo spesso consegnato il potere pubblico a gente incapace di intendere e di volere. Oggi noi veniamo visti come un popolo bisognoso di elemosine, che vive di assistenza e di assistenzialismo. Siccome ciò è in buona parte vero, ed è una colpa nostra, o ce ne assumiamo la responsabilità e ci riappropriamo dell’ardore della rinascita, oppure andremo sempre peggio. Proprio con la nostra determinazione, con la nostra rabbia e con la nostra dignità, noi dobbiamo dimostrare che vogliamo essere attori protagonisti del cambiamento e accettare di essere giudicati per i nostri comportamenti. Basta piangerci addosso, dobbiamo assumerci l’onere di ricostruire il Paese e dunque la nostra terra. In che modo? Intanto selezionando nuove classi politiche e tutelando il bene pubblico. È inconcepibile che nella sua città un calabrese butti cartacce per strada e quando si trova al Nord usi, invece, il cestino dei rifiuti».

In Calabria c’è un altro concetto di cittadinanza?
«L’interesse della collettività è uguale sia a Reggio Calabria che a Milano. Perché noi a Milano siamo civili e a Reggio Calabria siamo incivili? Allora proviamo a essere cittadini di serie A. Prima di pretendere delle cose, proviamo a dimostrare agli altri che noi sappiamo essere cittadini. Scrolliamoci di dosso la puzza di essere portatori di negatività, sia criminali che legate all’assistenzialismo. Togliamoci la puzza di essere portatori di apatia, di vagabondaggine, di irresponsabilità. Io voglio portare avanti la battaglia comune, sicché dico ai calabresi che dobbiamo svegliarci perché non possiamo più permetterci il lusso di essere indicati o immaginati come nullafacenti».

Esiste l’unità nazionale? Nel dibattito pubblico, si discute il più delle volte di soldi da ricevere. Tuttavia, poco si parla dei criteri di allocazione delle risorse disponibili, basati in primo luogo sul numero degli abitanti nelle singole aree dell’Italia. Il Nord ha una popolazione maggiore, quindi avrà più risorse, a prescindere dalle condizioni delle infrastrutture e dei servizi. A tuo avviso la ripartizione delle risorse poteva o potrebbe rispondere a logiche diverse, per esempio allo stato e al fabbisogno effettivo di strade, ospedali, scuole? Poteva o potrebbe fondarsi, questa ripartizione, sul livello di degrado economico, sociale e culturale nelle varie zone del Paese? 
«Certo che la ripartizione delle risorse potrebbe avvenire sui bisogni effettivi dei singoli territori. Guarda Emiliano, l’altro giorno, nel dibattito televisivo che ho avuto con l’ex ministro leghista Castelli (foto sotto), mi ha colpito molto una sua espressione. Il mio interlocutore era di certo una persona culturalmente avanzata, evoluta; un ingegnere, un esponente della borghesia culturale, sociale e politica del Nord. Quando lo ascoltavo, mi sembrava di vedere un film sulla schiavitù nel sud degli Stati Uniti, dove c’erano i bagni e i sedili dei bus per i neri. Oggi le discriminazioni razziali sono inconcepibili, nel senso che dovrebbero essere abbondantemente superate. Tuttavia, nel 2023 ho sentito la parola “voi” pronunciata da un ex ministro della Repubblica, Castelli, che ha inteso distinguersi, collocarsi da un’altra parte, differenziarsi. Sono rimasto a bocca aperta, perché quello non era il pensiero di un signor qualcuno, ma il pensiero di larga parte di un’area geografica del Paese, che vede il Mezzogiorno come popolato da sanguisughe e parassiti, il Nord come il motore che traina l’Italia». 

I giochi sono fatti, insomma?
«Temo molto l’attuazione dell’autonomia differenziata. È come quando uno gioca a carte. Io non sono un giocatore, ma so che il mazziere dà le carte e stabilisce le regole. Ecco, sull’autonomia differenziata stanno scrivendo le regole in funzione di quel pezzo del Paese che vogliono come vincitore. Il tema vero è avere la forza di dire a tutti che noi siamo un popolo, noi siamo uniti, noi siamo un Paese dalle Alpi alla Sicilia. Ma chi ha la forza, chi ha la dignità per riaffermare l’unità nazionale? Ormai è passato un luogo comune, secondo cui noi meridionali siamo i brutti e i cattivi. Per questo, difendere l’unità del Paese viene percepito come se si volesse favorire l’assistenzialismo». 

Secondo te, in questo momento storico e rispetto al futuro della Calabria, i giovani vengono in generale considerati? Persiste una retorica sui giovani o sta cambiando qualcosa nel rapporto che i centri di potere hanno con le nuove generazioni? 
«Non sta cambiando alcunché. Anzi, la situazione è peggiorata. Una volta i giovani avevano un sogno, vedevano una luce in fondo al tunnel, avevano un’ambizione. Oggi quell’ambizione non c’è più. Anche al riguardo c’è da riflettere, per esempio, sui percorsi formativi, sulla differenza di formazione tra il Nord e il Sud. Sembra che ci siano due anni di gap formativo nello stesso percorso scolastico. Allora capisci bene che qui ci stiamo abituando ad essere un territorio di serie Z, dove al massimo siamo come un bacino che dà manodopera e forse ogni tanto qualche eccellenza, grazie alla capacità, alla volontà, alla determinazione delle grandi intelligenze che ci sono nei nostri territori. Sono poche le persone che riescono a emergere perché determinate dentro, arrabbiate, desiderose di emergere. Spesso il sistema non ti dà la possibilità di essere quello che vuoi. Peraltro, vedo un peggioramento nel rapporto tra politica e giovani, che si stanno anche allontanando dalla gestione della cosa pubblica».

Ci sono segnali positivi?
«Vedo, purtroppo, una profonda rassegnazione per il futuro della Calabria e dei calabresi. Noi siamo un popolo rassegnato.  Allora, c’è da augurarsi che la rabbia ci induca a riappropriarci del nostro destino». 

Qual è la tua speranza? 
«Una sola, che noi calabresi ci svegliamo». 

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