«Nei campi si parte dalle ferite. La ’ndrangheta c’è e ha fatto male a tante persone. Ma c’è anche chi resiste, chi si ribella. Ci sono famiglie che denunciano i congiunti che fanno parte delle ’ndrine, ci sono imprenditori che si rifiutano di pagare il pizzo e vanno dai carabinieri. Grazie ai campi la comunità prende consapevolezza che la Calabria è anche altro. È soprattutto altro». Sulle pagine de La Repubblica la volontaria Maria Joel Conocchiella parla della possibilità di raccontare una «storia diversa della Calabria» attraverso le esperienze vissute nei campi estivi organizzati da Libera, che possono rappresentare quindi «un valore aggiunto perché permettono una contronarrazione che smentisca i tanti stereotipi». La 25enne vive a Briatico, in provincia di Vibo Valentia, appena laureata in Giurisprudenza, è attiva da alcuni anni nei campi confiscati alla mafia e ha dato ora la propria disponibilità a diventare referente provinciale di Libera per Vibo Valentia. Con il fondatore e presidente dell’associazione che supporta i familiari vittime della criminalità organizzata, don Luigi Ciotti, si mette a confronto in videocall sul valore della testimonianza civile, come raccontato dal quotidiano.
Sono diverse le attività svolte nei campi che si tengono nei beni confiscati alla criminalità organizzata. «In questo momento – dice don Ciotti – ci sono cinquanta campi in tutta Italia. Circa tremila ragazzi si sono prenotati per trascorrere i mesi estivi in queste realtà». «I ragazzi ci lavorano facendo di tutto: dalle cose pratiche – tipo la gestione dei campi, lavori di manutenzione, riverniciature – alla cura dei rapporti con la gente del territorio. Io ho fatto la campista a Crotone e con altri amici andavo in giro a portare pacchi alle persone bisognose. Sono aiuti materiali, ma non solo: perché partono dalla conoscenza del territorio», spiega Maria Joel, che attualmente svolge attività nel carcere di Vibo Valentia, con i detenuti dell’alta sicurezza attraverso il Cineforum “Pellicole Scomode”.
I beni confiscati, spiega la referente vibonese di Libera sono «il simbolo visibile della potenza mafiosa: e ora sono diventati il segno tangibile del riscatto, della speranza. Simbolo, segno ma anche concretezza, perché grazie a quei beni confiscati si dà lavoro». «La confisca – aggiunge don Ciotti – vuol dire trasformare in valore sociale, in democrazia, in giustizia quello che era il profitto di un crimine. Le mafie avevano confiscato la vita di tante persone. E oggi c’è bisogno di recuperare».
La forza dei giovani, la rivoluzione femminile della Calabria, la tragedia dei migranti che si è consumata a Cutro. Nel dialogo tra Maria Joel e don Ciotti c’è spazio per i temi che toccano da vicino la regione «Purtroppo – spiega la referente di Libera – ancora tanti ragazzi se ne vanno dalla Calabria per necessità. Io non dico che sia obbligatorio restare qui: ma andare via deve essere una scelta, non una costrizione. Però sono positiva, perché vedo molti giovani pronti a impegnarsi. Anche molti che ritornano e portano a noi l’esperienza che hanno vissuto altrove». Sulla ribellione da parte di tante donne alla ‘ndrangheta Maria Joel ha spiegato: «Ci sono tantissime storie di donne che si ribellano. Figlie e mogli di boss: anche andando indietro nel tempo. Molte non ci sono più, perché hanno pagato con la vita. Ma grazie a loro oggi molte donne hanno trovato la forza. Chiedono aiuto allo Stato, si affidano allo Stato. La mafia si nutre molto del controllo sulle donne, e questa rivoluzione femminile la mette in difficoltà».
Don Ciotti durante la videocall mostra a Maria Joel la croce realizzata con i legni del naufragio di Cutro: «Sono due assi di legno presi dal barcone affondato a Cutro tra il 25 e il 26 febbraio scorso. Sono morti in cento, a cento metri dalla tua terra. Questa croce sentila anche un po’ tua». «Deve essere un monito per tutti noi. In quella croce – risponde la referente vibonese di Libera – sono inchiodati i sogni e le vite di tanti esseri umani che hanno avuto la sola colpa di nascere dalla parte sbagliata del mondo. Con gli altri ragazzi di Libera, siamo andati su quella spiaggia a chiedere scusa».
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