Nonostante siano trascorsi quasi ottant’anni dalla pubblicazione del capolavoro di Carlo Levi “Cristo si è fermato ad Eboli”, alcuni suoi contenuti sono sempre attuali ed applicabili all’intero Sud. Certo, Levi visse l’esperienza di un piccolo paese contadino della Basilicata (Aliano) dove fu spedito al confino dal fascismo. Mentre oggi l’intero Sud ha avuto la sua dose di modernizzazione (spesso fraintesa). Il capolavoro di Levi racconta un mondo che non c’è più. È stato perfino attaccato (come i libri di altri grandi autori quali Verga, De Martino, Alvaro) da una certa critica supponente che non è capace di contestualizzare i narrati e che accusa quella letteratura di aver impedito lo “sviluppo” del Sud perché troppo ripiegata sulla realtà rurale del tempo. Eppure, quando rileggo le pagine ispirate di Levi, mi viene da pensare come una storia che racconta il passato (all’epoca attuale) porti con sé qualcosa di tragicamente attuale ancor ora.
In queste ore, ad esempio, dinanzi alla disperazione di tutti noi che amiamo il Sud per il ripetersi del fenomeno tutto umano dei roghi estivi, mi torna in mente quell’ossimoro lessicale che Levi usa alla fine del primo capitolo a proposito di Aliano e della Basilicata contadina: “terra oscura, senza peccato e senza redenzione”. Ecco, il Sud che brucia, da Palermo a Catania a Reggio, è una terra senza redenzione. Non è più senza peccato, come lo erano i braccianti poveri di Aliano. Ma certamente è ancora senza redenzione: non sembra possibile che il Sud possa emanciparsi da questo drammatico fenomeno. Al di là di ogni analisi tecnica, i roghi nel sud sono anche una metafora potente, hanno un alto valore simbolico.
Gli incendi che devastano le periferie delle città (l’assedio delle fiamme è capitato, fra gli altri, a Catanzaro, ad Acri, a S. Caterina sullo Jonio, ad Isca sullo Jonio, e in queste ore sta avvenendo a Palermo e in tutta la fascia costiera del Reggino), i coltivi, le terre incolte, i parchi ripiantumati intorno alle città (come la Pineta di Siano, a Catanzaro, due anni fa), le grandi montagne ed i loro boschi atavici (come avvenne per l’Aspromonte sempre nel 2021), sono il segno tangibile che non c’è e non ci sarà mai pace per il Sud (l’irredimibilità leviana). Possiamo prendercela quanto ci pare con i piromani, con le istituzioni che non riescono a prevenire, spegnere e reprimere, ma la colpa è principalmente di noi meridionali, che non meritiamo tutta questa bellezza, che non amiamo abbastanza i nostri luoghi, che non ne abbiamo rispetto, che non ne riconosciamo il valore, la dignità.
Sembrerò disfattista, ma credo che la storia, con la sua terribile ciclicità, dovrebbe convincerci che siamo noi meridionali a bruciare il nostro mondo, a tradirlo, a mandarlo all’inferno. Il fuoco non viene dal nulla, non arriva per il caldo e nemmeno da un mozzicone di sigaretta gettato dal finestrino. Il fuoco ha bisogno di un’esca, di qualcuno che l’appicchi, di qualcuno che lo lasci propagare, di qualcuno che non sappia spegnerlo nell’immediatezza, di qualcuno che non sorvegli. E quel qualcuno è sempre, inesorabilmente un uomo del Sud: che vuol vedere la sua terra soccombere, che vuol metterla in ginocchio, che vuole umiliarla, che vuol calunniarla. Perché ci indigniamo, allora, ad esempio, per l’autonomia differenziata, se non siamo capaci di impedire che il Sud bruci ogni estate, che i profumi del mirto e delle ginestre vengano soppiantati dalla puzza acre della vegetazione bruciata, che gente inerme muoia nel cercare di salvare i suoi beni? Perché reclamiamo dagli altri più solidarietà, più attenzione, se non ne abbiamo per i nostri luoghi, per le nostre comunità?
È una forma di cupo nichilismo accomunata alla rassegnazione ed all’ignavia dei più. Come scriveva Levi: “Pensavo a quante volte, ogni giorno, sentivo questa continua parola, in tutti i discorsi dei contadini. “Niente”. Che cosa hai mangiato? Niente. Che cosa speri? Niente. Che cosa si può fare? Niente.”
*Avvocato e scrittore
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