CATANZARO I magistrati della Dda di Catanzaro avevano beccato “Pino”, al secolo Giuseppe Antonio Mancuso, nella caccia al tesoro della cosca Grande Aracri. Nato a Torino ma residente a Cropani, il broker era uno dei tanti personaggi in cerca del colpo finanziario della vita. Indagato nell’inchiesta “Corto circuito” perché ritenuto vicino al clan Maesano, Mancuso aveva acceso un conto da 200 milioni di euro in una filiale della Banca Mediolanum di Lamezia Terme. Non era un emiro, però, tutt’altro: la mancanza di «redditi significativi» lo aveva fatto finire nel mirino degli investigatori nel 2013. Dieci anni dopo è uno dei collaboratori di giustizia più «precisi e preparati» sulle attività di truffa delle cosche crotonesi «in seno alle strutture finanziarie». Le sue parole sono utili a Domenico Guarascio e Paolo Sirleo, i pm che hanno firmato l’inchiesta “Glicine-Acheronte” per addentrarsi in sistemi di finanza occulti e molto redditizi.
Per entrare nel mondo delle piattaforme finanziarie descritto da Mancuso si parte da due punti fermi: i soldi, possibilmente tanti e «reali» e i buoni uffici «all’interno degli istituti bancari» senza i quali diventa difficile bypassare i controlli. Il collaboratore entra nel dettaglio: «Chi ha la reale disponibilità di ingenti somme di denaro, per il più delle volte frutto di attività illecite, depositate su conti correnti esistenti presso istituti bancari per lo più ubicati in paradisi fiscali, entra in contatto con un trader (ve ne sono una decina in tutto il mondo) che gestisce una cosiddetta Piattaforma Telematica a cui si può accedere solo se realmente si dispone di grossissime cifre di denaro». È un club finanziario molto riservato che «si appoggia a una o più banche. La finalità – continua il racconto di Mancuso – è quella di trasferire telematicamente la somma di denaro su questa piattaforma che genera degli utili-interessi che variano in percentuale dal 7% sino al 100% giornaliero. La cifra investita viene lasciata sulla piattaforma per un massimo di 40 settimane ma solitamente viene disinvestita molto prima in base agli eventuali rischi che si potrebbero correre. In piattaforma il denaro si può lasciare anche per 24 ore».
Uno degli attori dello “spettacolo” finanziario è il “sender”, cioè la banca nella quale si trova il conto corrente con i fondi oggetto dell’investimento in piattaforma che vengono vincolati a un blocco fondi. C’è poi il “receiver”, cioè la banca a cui si appoggia la piattaforma e quindi il trader. «Oltre alle banche – spiega il collaboratore – vengono inserite le persone fisiche o giuridiche di comodo (società, holding, fondazioni, ecc) che rappresentano rispettivamente il reale possessore del denaro (investitore) e il Trader». Attraverso i messaggi standard per le transazioni internazionali si dà «garanzia di esistenza e di “pulizia” dei soldi liquidi esistenti presso il conto corrente del Sender nonché che questi soldi sono vincolati da un blocco fondi». E «una volta che la banca “receiver” riceve la documentazione fornisce il via libera all’investimento in piattaforma, alla società/persona fisica che rappresenta il “trader”». A quel punto il denaro rimane in piattaforma e nascono gli utili. Dopo il tempo pattuito «i presenta la necessità di ripartire gli utili generati dalla Piattaforma. In questo caso una parte che varia dal 50 al 70 per cento degli utili generati ritorna indietro nella disponibilità dell’investitore (“sender”), la restante percentuale invece rimane nella disponibilità del trader. Quest’ultimo a sua volta provvede a destinare parte del guadagno al gruppo di “intermediari” che hanno operato unitamente a lui. In questa schiera sono ricompresi i cosiddetti “facilitatori”, il direttore-funzionario sul quale si appoggia la Piattaforma, e la società-fondazione che ha prestato il conto corrente inserito nel contratto di joint venture (che include tutte le parti in causa)». L’investitore iniziale può anche decidere di dirottare il guadagno «su un conto corrente diverso da quello indicato nel contratto di joint venture (ovvero sul quale è depositata la somma oggetto dell’investimento in piattaforma)». Si può fare stipulando un nuovo contratto nel quale «possono essere anche indicate le altre parti che hanno svolto la funzione di intermediari destinatarie delle percentuali pattuite e che rappresentano la provvigione». In questi casi ci si sottopone a un ulteriore controllo bancario. Se, tuttavia, il direttore o il funzionario preposto è «compiacente, questo tipo di controllo è meramente formale».
Un mese e mezzo più tardi – è il 26 settembre 2019 – Mancuso torna davanti ai magistrati antimafia. Il nuovo incontro serve a sottolineare «le relazioni illecite tra i trader e le istituzioni bancarie interessate alle operazioni di investimento». Nel nuovo racconto del collaboratore emergono dettagli inediti e si delinea il profilo della frode nei contratti di joint venture. «Il primo passaggio – inizia così il nuovo verbale – è quello di reperire un istituto bancario compiacente, sia in Italia sia all’estero, dove creare un conto corrente reale e sul quale generare, con la complicità del direttore/i (chiamato B.O), un estratto conto falso, sul quale far risultare la giacenza di svariati milioni di euro». A quel punto i funzionari «emettono una lettera con la quale si attesta che i fondi su quel conto corrente esistono e sono di provenienza lecita. Queste operazioni sono propedeutiche alle creazioni di un cosiddetto “blocco fondi”, solo cash, che normalmente in Italia è vietato». Il “blocco fondi” «precede – spiega Mancuso – quello che è l’ingresso in cosiddette “piattaforme” (chiamate in gergo CD), ovvero spazi digitali, gestite da trader, esistenti solo in alcune parti del mondo (Hong Kong, Londra, Canada sono le principali), dove effettuare operazioni speculative di trading ad altissimo rendimento».
Il collaboratore illumina anche un’altro aspetto della ripartizione degli utili: «Spesso e volentieri, gli intermediari, che di fatto non hanno parti sostanziali in queste operazioni, non riescono a guadagnare nulla, in quanto, ad esempio, il Paymaster (la figura che ripartisce i guadagni dopo aver girato la quota parte agli investitori iniziali, ndr) attesta che l’operazione non è andata a buon fine, facendo leva sul fatto che gli intermediari né conoscono il trader né vengono tenuti al corrente dei passaggi dell’operazione in piattaforma». Altra sottolineatura quasi scontata: «Il rapporto tra il trader e le banche a cui lui si appoggia, sono rapporti non legali, in quanto le banche stesse non potrebbero compiere operazioni del genere in queste piattaforme». Mancuso torna anche sull’ultimo step della frode: «A chiusura della piattaforma, i soldi accumulati dall’investitore originario e allocati sul conto corrente di un istituto estero, devono essere monetizzati e trasferiti su altri conti correnti, come in Italia. In questo caso si possono utilizzare, solitamente fondazioni, società fiduciarie a cui trasferire parte di questo denaro, oppure richiedendo alla banca presso cui i soldi frutto della piattaforma sono depositati, un prestito/finanziamento falso, il cui ammontare viene accreditato, ad esempio, su un conto in Italia». L’utilizzo delle fondazioni apre un nuovo scenario nelle operazioni della ‘Ndrangheta nella finanza occulta. Per certi versi ancora più inquietante. Altra storia da approfondire. (p.petrasso@corrierecal.it)
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