LAMEZIA TERME Interessi in Lombardia e in Veneto, ma non solo. La cosca Megna, oltre ad essere ben radicata nel Crotonese, proprio territorio di riferimento, è riuscita negli anni ad estendere i propri interessi fuori dalla Calabria, toccando anche l’Emilia-Romagna. A scriverlo nero su bianco è il gip del Tribunale di Catanzaro, Antonio Battaglia, nell’ordinanza che ha portato all’arresto di 34 persone nell’inchiesta “Glicine” coordinata dalla Direzione distrettuale antimafia diretta dal procuratore Nicola Gratteri contro i “papaniciari”.
Mantenendo vivi i propri interessi fuori regione, il clan è riuscito ad accrescere il proprio spessore criminale e a rafforzare la propria capacità di strutturazione criminale con l’acquisizione di maggiori e facili introiti. «La cosca “papaniciara” è riuscita a governare e strutturare le proprie cellule criminali – scrive il gip nell’ordinanza – attraverso una fine interconnessione che prevedeva la presenza stabile di soggetti oculatamente individuati» e un sistema di collegamento con la cosca madre «attraverso le frequenti trasferte dei soggetti più fidati» e legati al capo clan Domenico “Micu” Megna e Mario Megna, entrambi finiti in carcere.
«(…) a Parma i papaniciari, i Trapasso e gli stessi cutresi legati ai Grande Aracri facevano affari insieme (…) e quando dico facevano affari insieme, significa che collaboravano nell’acquisizione di appalti, nel compimento di truffe, ecc. ma, chiaramente, ognuno dei componenti rispondeva alla propria famiglia di origine». La presenza della cosca papaniciara in Emilia-Romagna è stata confermata, poi, dalle dichiarazioni di importanti collaboratori di giustizia come Massimo Colosimo e Giuseppe Giglio. A parlare in questo caso con i magistrati è proprio Colosimo che è anche in grado di fornire informazioni dettagliate. «Mario Megna a Parma si associa insieme a Strini, genero del noto imprenditore Tanzi, tale Moscogiuri, soggetti della Basilicata di cui ora non ricordo il nome, ma di cui ho già riferito». «I miei rapporti con esponenti della cosca di Papanice» ha riferito invece Giglio – «risalgono al 2005, quando conobbi, in Emilia, Michele Bolognino. È noto che Bolognino era stato già arrestato insieme ai papaniciari e, dopo la sua scarcerazione, viene in Emilia, ed iniziamo a lavorare insieme».
Gli inquirenti, sulla scorta delle dichiarazioni dei pentiti, nel corso della lunga attività di indagine si preoccupano di trovare quanti più riscontri possibile. E, in questo senso, la prima delle vicende monitorate riguarda i rapporti che Mario Megna, ed i suoi fidati punti di riferimento collocati nei punti strategici del territorio, intrattengono con un imprenditore parmense. Si tratta di Giovanni Bello – inizialmente posto ai domiciliari e successivamente scarcerato come disposto dal Tribunale del riesame di Catanzaro – titolare di un’importante società di trasporti, la S.T.R. Società di Trasporti Refrigerati s.r.l. L’imprenditore, insieme al figlio Luca, dopo essere stati arrestati perché coinvolti in un traffico internazionale di prodotti petroliferi in contrabbando, ha visto fallire la propria azienda. Ma, al contempo, sarebbe riuscito a distrarre almeno in parte il parco automezzi. Ed è in questo contesto che è entrato in gioco proprio Mario Megna, intervenuto su richiesta dell’imprenditore per vendere, sottobanco, i rimorchi ed i trattori nel frattempo posti sotto sequestro. «si… lui mi ha detto vedi e sto vendendo qualche rimorchio qualche trattore…in modo hai capito come? Vedi se c’è qualcuno… sono rimorchi nuovi sono… frigoriferi… chi se ne accorge che prendi il rimorchio e te ne vai…». È una delle conversazioni intercettate tra Megna e Salvatore Cervinaro (quest’ultimo deceduto) incaricato di veicolare le richieste dell’imprenditore Bello. «(…) vedi se ti servono rimorchi che te li puoi andare a agganciare… quello che vuoi, puoi andare ora… andiamo da tuo fratello Cosimo ora, lo chiami, lo chiamiamo (…) vai oggi pomeriggio te li agganci e te li porti, poi per il prezzo poi parliamo…». Questa è un’altra telefonata significativa riportata nell’ordinanza del gip in cui Megna allerta i suoi fidati sodali, Moscogiuri e Strini, entrambi arrestati. Operazione, ovviamente, da effettuare in contanti per evitare la tracciabilità, così come Megna spiega a Francesco Carioti – anche lui arrestato – in una conversazione: «(…) la mattina vai al pullman e te li prendi, senza Postepay!», richiamando i soci all’importanza dell’operazione: «(…) ci vogliono i risultati, prendiamo il rimorchio con la motrice attaccata, fretta non ce n’è però lo dobbiamo fare subito». In un successivo step, come evidenziato, il Tribunale del riesame di Catanzaro ha “riscritto” il ruolo disegnato per l’imprenditore nella ricostruzione giudiziaria della Dda e revocato la misura di custodia cautelare agli arresti domiciliari per Bello, difeso dall’avvocato Fausto Bruzzese. La difesa ha presentato ricorso contro l’ordinanza e i giudici (presidente Mario Santoemma, estensore Rita Bosco) hanno disposto la revoca della misura e la liberazione.
Gli intrecci economici emersi nel corso dell’attività investigativa, hanno fatto emergere altre figure importanti oltre all’imprenditore parmense. Tra queste ci sono gli indagati Giacomo Pacenza, Francesco Ruggieri, Filippo Carrà, e ancora Enrico Moscogiuri e Stefano Strini. Per gli inquirenti «figure di congiunzione necessarie alla cosca dei papaniciari» per una serie di reati legati alle truffe, impossessamento di beni e mezzi sottoposti a vincolo, vari traffici illeciti. I rapporti tra Pacenza e le cosche di ‘ndrangheta nel Crotonese sono già stati ricostruiti in altre operazioni anti ‘ndrangheta come Tramontana e Heracles in qualità di «appartenente alla cosca Vrenna-Corigliano-Bonaventura, particolarmente attivo nel settore del narcotraffico. Il suo nome salta fuori in occasione di una visita, a Parma, di Mario Megna, con quest’ultimo che soggiorna proprio a casa Pacenza. In particolare, Pacenza «non fa altro che raccogliere le confidenze di Megna» scrive il gip nell’ordinanza e le lamentele che lo stesso «portava nei confronti di alcuni soggetti, tra i quali indicava anche un parente dello stesso Pacenza, colpevole di non portare il dovuto rispetto alla sua persona ed al clan». In una conversazione captata dagli inquirenti Megna spiega: «(…) vedi che io giro per tutti quanti, tutte le famiglie, delle nostre… giro io! I soldi, li porto io! (…) e a me, mi dovete portare rispetto e stima come ve la porto io e tutta la famiglia mia!».
E se le posizioni di Ruggiero e Carrà appaiono, per gli inquirenti, più sfumate, gli intrecci affaristici erano più consistenti invece con Strini, Moscogiuri e Corbisieri, intrattenuti da Mario Megna in occasione dei suoi viaggi in trasferta a Parma. C’è una conversazione, in particolare, captata dagli inquirenti e nella quale – così come scrive il gip – nel corso della quale si intuisce che il ristorante di Collecchio, gestito da Moscogiuri e da Corbisieri, in realtà era riconducibile, almeno in parte, alla cosca papaniciara, diventata la sede logistica di Mario Megna e dove aveva luogo anche un fiorente traffico di stupefacenti. «(…) eh perché qua i soldi dei pagamenti li tolgo io… con lui abbiamo preso i cosi insieme (…) solo che lui ha messo più soldi, però pagare pago io, gli operai, la spesa…». È Megna a spiegare ad una certa Arianna come funzionava all’interno del locale, proponendole di andare a lavorare proprio nel suo ristorante.
Ulteriore conferma del ruolo dei tre indagati rispetto alla cosca Megna arriva – scrive il gip – da alcuni viaggi in direzione Crotone per prendere «direttive da Domenico Megna, verso il quale manifestavano un evidente stato di referenza». È il 23 giugno 2016 quando Moscogiuri e Corbisieri si recano prima da Mario Megna, poi insieme vanno a pranzo da Domenico Megna che li attendeva, la prima occasione per conoscersi di persona. (g.curcio@corrierecal.it)
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